I bisogni emotivi fondamentali del bambino. Parte II. Intervista alla Dottoressa Federica Trivelli, Psicoterapeuta

Dottoressa Trivelli in un articolo di qualche mese fa abbiamo parlato del bisogno di sicurezza, di esplorazione, e regolazione dello stato emotivo e affettivo nel bambino.https://ilblogdiadri.altervista.org/2018/06/piccoli-esploratori-crescono-bisogni-emotivi-fondamentali-dei-bambini-ne-parliamo-la-dottoressa-trivelli/ 

Può spiegarci questa dualità? Se da una parte il bambino ha  bisogno, fin dalla nascita, di esplorare, conoscere e allontanarsi dai genitori e/o dagli adulti di riferimento, dall’altra è altrettanto forte  l’esigenza di poter tornare alla base sicura, rappresentata dai genitori e/o adulti di riferimento? 

Dottoressa Trivelli – In effetti potremmo considerarlo un andare e tornare costante: il bambino si allontana per esplorare, torna per poter recuperare e fare scorta di energia affettiva ed emotiva,  e ritorna quindi ad esplorare il mondo circostante. . Immaginiamo che il bambino sia un’automobile, è evidente che per muoversi debba necessariamente fare il pieno di benzina, per il bambino   la benzina è rappresentata dall’affetto, la presenza, la vicinanza emotiva del genitore, facendo il pieno di tutta questa “benzina” può.

Cosa intende per “esplorazione”?

Dottoressa Trivelli – L’esplorazione non è limitata al mondo fisico, il bambino deve anche esplorare la relazione con i genitori e con l’altro fuori da sé e per poterlo fare deve allontanarsi dal genitore, per questo deve riempire il suo serbatoio proprio come fanno le automobili prima di un grande viaggio.

Un esempio pratico: spesso i bambini (dai più piccini ai preadolescenti) cercano l’abbraccio della mamma o della maestra, si fanno coccolare e poi si staccano tornando ai loro giochi, continuano le loro esplorazioni, giocano con gli altri, dopo un po’ come se il segnale interno del serbatoio vuoto si accendesse, ritornano dalla figura di riferimento, perché sta terminando la riserva affettiva.

I bambini hanno bisogno di punti di riferimenti affettivi forti da cui partire per andare ad esplorare, ma hanno anche bisogno di poter sviluppare la consapevolezza di poter tornare a fare rifornimento di affetto, tutte le volte in cui ne hanno bisogno.

E come si manifesta questo ritorno, come comprendiamo il bisogno di ricaricarsi del bambino?

Dottoressa Trivelli – Se per un genitore è relativamente più semplice comprendere il bisogno di esplorazione del bambino e sostenerlo, non è altrettanto scontato comprendere la necessità di poter tornare dal genitore per fare rifornimento.

Occorre decodificare il loro linguaggio emotivo perché quando i bambini tornano in cerca di attenzione e di affetto dai genitori, non è che siano sempre allegri, saltellanti quasi sempre sono stanchi, privi di energia, piangono, in pratica quei comportanti che noi etichettiamo tout court come CAPRICCI, senza soffermarci a comprendere il valore del capriccio in sé. Spesso è come se il bambino ci dicesse, mamma, papà, nonna, maestra, tata, “sto finendo la benzina”, ho bisogno di tornare da te, per ricaricarmi un po’ e poi torno ad esplorare. Ma è ovvio che questo ritorno del bambino non è programmato, è casuale, lui non bada a quello che stiamo o non stiamo facendo, quindi può capitare che mentre prepariamo cuciniamo una pietanza che va necessariamente seguita perché altrimenti brucia, ecco che il nostro bimbo ci richiede la nostra totale attenzione. Non possiamo lasciar bruciare la cena e gli diciamo con dolcezza di aspettare qualche minuto…  ed ecco che parte la reazione: il pianto, l’agitarsi, il nervosismo, a volte le urla.

Il famoso capriccio che a noi sembra insensato, ecco è proprio questo comportamento che i genitori devono decodificare, anche se non è facile: il bambino sta esprimendo un suo bisogno fondamentale, per poter crescere e sviluppare la consapevolezza di poter tornare a far rifornimento che è alla base di una personalità forte e sicura.

L’affetto di chi si prende cura del bambino, che è presente al momento in cui si allontana per esplorare e perdura nel momento in cui torna per ricaricarsi, aiuta il bambino a gestire l’ansia e a sviluppare sia la fiducia in sé stesso, sia la fiducia e la sicurezza del rapporto con l’altro.

I due bisogni fondamentali del bambino sono il bisogno di sicurezza e la necessità di protezione, entrambi contribuiscono a dare al bambino un’immagine di sé come degna d’amore e a sviluppare sia l’immagine dell’altro come persona di cui fidarsi e a cui rivolgersi in caso di necessità, sia l’immagine del mondo come un luogo benevolo e non come un luogo minaccioso di cui avere paura.

Questo è un aspetto molto importante perché potersi rivolgersi a qualcuno in un momento di difficoltà è uno dei mandati fondamentale di tutti i mammiferi, essere umano compreso.

Cosa possono fare i genitori ? In pratica come possono dare appoggio e sostegno al bisogno di esplorazione e all’esigenza  di tornare alla base per fare rifornimento di coccole, affetto e vicinanza emotiva?

Dottoressa Trivelli –  Prima di tutto bisogna appoggiare il desiderio di esplorazione del bambino senza sentirsi (e mostrarsi) preoccupati, ansiosi, o feriti per il suo bisogno di allontanarsi da noi ed esplorare l’ambiente circonstante. L’esplorazione deve essere consentita a distanza o anche in presenza senza intervenire e senza sostituirsi troppo al bambino nei momenti di difficoltà.

Il bambino così si sente libero ma in uno spazio protetto e sicuro

I bambini hanno bisogno di sentirsi ammirati, di sentirsi amati per quello che sono e non perché sono capaci di fare qualcosa. L’ammirazione veicola l’accettazione e il sentirsi accettati permette al bambino di esprimere sé stesso, le sue emozioni, e le sue opinioni e questo è fondamentale per sviluppare una buona autostima. Hanno bisogno di sentirsi apprezzati, è necessario che gli adulti di riferimento riconoscano le competenze e il valore del bambino, senza che ci sia giudizio e/o valutazione.

Quando un bambino esplora può anche vivere momenti di difficoltà, è compito dell’adulto di riferimento fargli comprendere che è in grado di farcela da solo, ma che in caso di necessità ci sarà sempre qualcuno pronto ad aiutarlo

Vorrei ribadire un concetto: è importante che il bambino ci senta presenti nel momento in cui la sua esplorazione evolve, quando cerca di fare qualcosa che magari qualche mese prima non riusciva a fare, ma è altrettanto importante che non ci si sostituisca al bambino per evitargli la frustrazione del fallimento, perché questo restituisce al bambino un’idea sbagliata su sé stesso e sul mondo.

L’adulto quindi rappresenta sia la base sicura dal quale partire ad esplorare, sia il porto sicuro in cui rientrare dove poter trovare nuovamente vicinanza fisica ed emotiva, perché è questa la “benzina” di cui i bambini hanno bisogno.

E in che momenti i bambini hanno bisogno di ritrovare il loro porto sicuro?

Dottoressa Trivelli – Quando si sentono stanchi, spaventati, a disagio, quando non comprendono l’emozione che stanno vivendo.

Quando sono spaventati hanno bisogno di protezione fisica, ma anche emotiva, è importante per il bambino avere l’assoluta certezza che i genitori siano pronti a proteggerli quando ne hanno bisogno per evitare di sviluppare la paura anche quando sono al sicuro.

In altri momenti hanno anche bisogno di essere consolati, coccolati, essere accolti, rassicurati rispetto a qualcosa che per loro è fonte di preoccupazione, di angoscia, di non comprensibile, le cause possono essere sciocchezze per noi adulti, ma per loro rappresentano  drammi interiori dai quali non riescono ad uscire.

Quindi il compito degli adulti di riferimento non è solo quello di sorvegliare, proteggere fisicamente ed emotivamente ma è anche quello di consolare, il bambino piccolo non ha l’energia e le capacità sufficienti per potersi consolare da solo. Più lo si consola da piccolissimo durante i suoi pianti, maggiore sarà in futuro la sua capacità di autoconsolarsi.

Sia quando esplorano sia quando tornano nel loro porto sicuro per fare il rifornimento, hanno bisogno di sentirsi ammirati, se questo è più facile farlo nel momento in cui sono in esplorazione (ad esempio quando muovono i primi passi, quando riescono a fare una torre con le costruzioni per la prima volta), è molto più difficile ammirare e accogliere un bambino che sta esprimendo paura, rabbia, frustrazione o paura.

Come possiamo manifestare tutto questo?

Dottoressa Trivelli – Attraverso gesti di tenerezza, comunicando loro l’affetto, dire “ti voglio bene” anche in momenti turbolenti non vuol dire viziarlo, significa invece “per te ci sono”.

La metafora della base sicura è un concetto espresso negli anni ’80 da John Bowlby  che è ormai alla base del mio lavoro terapeutico, sia con i bambini che con gli adulti, perché spesso gli adulti riportano delle grandi ferite rispetto ai bisogni di attaccamento, a questo concetto si è aggiunto un altro quello della pentola d’oro di Baron-Cohen.

La pentola d’oro?

Dottoressa Trivelli – Sì, proprio una pentola d’oro!

Immaginiamo che i genitori e gli adulti significativi per il bambino, gli consegnino una pentola d’oro interiore piena di emozioni buone, di amore, di cure, questa pentola colma è il serbatoio dal quale il bambino, il ragazzo e l’adulto futuro, trarrà la forza per affrontare le sfide, la capacità di riprendersi dalle avversità della vita e anche la capacità di poter mostrare le proprie emozioni e gioire insieme agli altri.

La pentola d’oro d’interiore è alla base di una buona e forte personalità, così colma di affetto ed emozioni positive è il regalo più grande che un genitore possa fare al proprio figlio, molto più importante di mille regali materiali. 

 

 

 

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La Dottoressa Simona Ius, nella sede di Roma di Studio Smail, organizza piccoli gruppi terapeutici con focus su mutismo selettivo e altri disturbi d’ansia per bambini  dai 10 ai 12 anni

“Ho da scoprire degli amici e conoscere molte cose”

Il Piccolo Principe

Sono lieta di annuciare una nuova iniziativa dello Studio Smail, che va ad aggiungersi alle altre già in via di realizzazione in questo autunno  ricco di novità.

La Dottoressa Simona Ius, nella sede di Roma di Studio Smail, organizza piccoli gruppi terapeutici con focus su mutismo selettivo e altri disturbi d’ansia per bambini  dai 10 ai 12 anni
Gli incontri della durata di un’ora e mezza e cadenza quindicinale, avranno inizio nel mese di ottobre.
Informazioni
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Dottoressa Ius questa nuova iniziativa a mio avviso interesserà molti genitori, ricevo spesso messaggi e mail da parte di genitori disperati perché è arrivato il temuto momento del passaggio alla Scuola secondaria e i loro ragazzi  con Mutismo selettivo non hanno fatto grandi progressi. Le ragioni sono tante e sarebbe inutile elencarle tutte, a volte le terapie vengono interrotte, alcuni non hanno trovato nessuno che li aiutasse nella loro città, ad altri è stato consigliato di lasciar “fare al tempo”. Purtroppo non è così, spesso il tempo peggiora le situazioni perché crescendo aumenta la consapevolezza delle proprie difficoltà , e il confronto con gli altri diventa sempre più difficile.  È per  per questi motivi che ha scelto questa fascia di età ?

Dott.ssa IUS – 

Sì proprio perché tra  i 10-12 anni  avviene  il passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria, questo è un importante momento di crescita,  i bambini iniziano a socializzare in modo indipendente, senza aver bisogno dei  genitori o  degli adulti di riferimento, per questo ho pensato di creare un gruppo in cui i ragazzini, che ancora presentino disturbi d’ansia o sintomi come il mutismo, possano lavorare insieme, confrontarsi  in uno spazio protetto.

Il  mio studio diventa un luogo in cui possono sperimentarsi, un luogo  che è simile al loro contesto quotidiano dove gli adulti sono ancora presenti, sono significativi ma hanno una funzione più a latere, così nel gruppo ci sono io come riferimento, ma il gioco relazionale è principalmente tra pari

Dottoressa per concludere questa brevissima intervista può spiegare ai nostri lettori la scelta del gruppo? Perché ha deciso di far intraprendere a questi ragazzini un percorso di gruppo e non individuale?

Dott.ssa IUS- 

L’idea di questo tipo d’intervento è quello di aggirare i rifiuti e le difficoltà che vivono o hanno vissuto  questi bambini, provenienti  da altre esperienze terapeutiche o meno, nel gruppo ognuno può specchiarsi negli altri, riconoscere qualcosa di simile, anche tutte le frustrazioni, le fatiche, la solitudine.

Nel gruppo si possono condividere le soluzioni, sia a livello diretto, sia attraverso attività espressive, ad esempio quelle figurative, per permettere ad un mediatore analogico come può essere il disegno, la pittura, il suono di mediare il messaggio. Riuscire a confrontarsi con un altro che ha avuto le stesse difficoltà permette di sentirsi meno unici e meno soli , perché poi alla fine a tutti piacciono gli unicorni …ma nessuno vorrebbe esserlo.

 

 

 

Grazie Dottoressa Ius credo che sia molto importante precisare che questi gruppi terapeutici  non sono rivolti solo a bambini…ragazzini  (è quella fascia di età che dice ” non sono più un bambino!) con Mutismo Selettivo, ma a tutti coloro che vivono delle difficoltà legate all’ansia.

 

La dottoressa Simona Ius fa  parte dello Studio Smail   

Il suo Studio è a Roma

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Via Aurelia 376
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Compiti per le vacanze sì , compiti no. Il parere della Dottoressa Simona Ius

Compiti sì, compiti no, continua il mio “sondaggio d’opinioni” su questo tanto dibattuto e attuale argomento. Dottoressa Ius lei come psicoterapeuta e come insegnante (la Dottoressa Ius ha lasciato quest’anno l’insegnamento) che ne pensa?

Prima di dare una vera e propria risposta io partirei da una riflessione: le vacanze sono vacanze per tutti, ognuno di noi ha vissuto l’esperienza di andare in vacanza portandosi dietro il computer, un fascicolo di lavoro o anche una preoccupazione lavorativa.

Cosa succede? Cosa provoca questo “bagaglio “in più? Disturba, interrompe il riposo, frastaglia la nostra esperienza. Per tutti, anche per chi resta in città è importante che ci sia una pausa, dei giorni di sospensione dal pensiero del lavoro, in realtà questo dovrebbe valere anche per tutti i fine settimana sia per noi che per gli studenti, e invece a volte ci portiamo il lavoro a casa e solitamente agli alunni vengono dati i compiti per tutta la settimana successiva.

E quindi compiti delle vacanze sì o compiti no?

Sì, se si tratta di fare qualcosa che li aiuti a utilizzare quello che hanno appreso come strumento, senza che diventi un peso. L’italiano ad esempio, nei periodi di vacanza, può essere utilizzato per il suo aspetto strumentale puro, cioè nella comprensione e la produzione di testi in semplici compiti di realtà, perché emergano le famose competenze che la scuola deve attivare negli studenti.

Dottoressa come si può tradurre tutto questo in qualcosa di gradevole e divertente per i bambini? Perché le parole “comprensione e produzione dei testi”, possono far pensare a qualcosa di estremamente impegnativo.

Credo che la prima indicazione da dare sia di leggere per svago e dicendo questo mi viene in mente il Decalogo del lettore di Pennac, che secondo me va sempre ricordato e tenuto in considerazione:

  • Il diritto di non leggere
  • Il diritto di saltare le pagine
  • Il diritto di non finire un libro
  • Il diritto di rileggere un libro
  • Il diritto di leggere qualsiasi cosa
  • Il diritto al bovarismo
  • Il diritto di leggere ovunque
  • Il diritto di spizzicare
  • Il diritto di leggere ad alta voce
  • Il diritto di tacere 

Fino all’anno scorso il consiglio che davo ai miei alunni della scuola primaria era questo: leggete, leggete quello che volete, leggete tutto quello che vi piace, fumetti, libri per ragazzi classici, libretti…

Andate in biblioteca, gli dicevo, potete “assaggiare” i libri senza finirli e senza la preoccupazione che un adulto vi dica: “Hai voluto acquistarlo, ora devi finirlo” inoltre in biblioteca potete chiedere consiglio ai bibliotecari, potete approfondire qualche vostro interesse, qualche vostra passione, l’importante è leggere, spesso la mia battuta finale ai genitori prima delle vacanze era: lasciateli liberi di leggere quello che vogliono, se hanno voglia di leggere le istruzioni della lavastoviglie, lasciategli leggere quelle!

Io sconsiglierei anche, da parte degli insegnanti, la richiesta di riassunti, riflessioni, testi di commento sui libri letti, perché distruggono il piacere della lettura, è automatico che tutto quello che viene dato come “compito”, quindi associato all’obbligatorietà annichilisca il piacere di un passatempo libero e leggero.

Si può consigliare di prendere nota dei titoli, e degli autori, e associare al libro un giudizio, inoltre si possono fare dei lavori creativi sul libro letto con modalità vicine al loro quotidiano: “registra il trailer”, “descrivilo in 140 caratteri”, “riassumilo con le emoticons” perché dalla contaminazione nasca la familiarità con il linguaggio scritto.

Perché il linguaggio scritto sia utilizzato con piacere, si può proporre di tenere un diario dei momenti significativi (“diario dei giorni belli”, “inventario delle cose nuove” “tutte le sorprese di queste vacanze”) per evitare , una cronaca quotidiana tipo “oggi mi sono svegliato alle 9, mi sono lavato, sono andato al mare…” che è noiosa per chi la scrive e per chi la legge.

Senza limiti di lunghezza o di brevità, il Diario deve essere uno strumento di scrittura libera: i bambini danno molta importanza al “quanto deve essere lungo?”, sono abituati a “misurare” i loro scritti, quindi in vacanza la regola è “scrivi quanto ti pare!”

E che altro ci consiglia per unire il divertimento all’apprendimento?

Rispetto al ventaglio di altre discipline oltre all’italiano, i bambini dovrebbero poter essere coinvolti il più possibile in attività quotidiane quali piccoli acquisti, pesatura di oggetti, misurazione del tempo, osservazione di fenomeni fisici… tutte cose queste, che, ad esempio accadono nella preparazione di un piatto di pasta!

Concludiamo con un consiglio…

I compiti (delle vacanze e non) dovrebbero essere pochi, dovrebbero poter essere svolti in autonomia, dovrebbero essere legati ad esperienze, dovrebbero essere divertenti: Insegnanti, non chiedete di produrre cose che vi annoiereste a leggere!

Tutte le immagini sono prese dal web.

 

 

 

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La capacità di “entrare in risonanza” con le persone. Intervista alla Dottoressa Simona Ius

Dottoressa Ius lei è una Psicoterapeuta Sistemico-Relazionale, ci può spiegare  in cosa consiste il suo approccio terapeutico.

Per spiegare il mio approccio terapeutico entro direttamente nella mia modalità di lavoro, il mio modo di essere potrei dire: che si tratti una terapia individuale, di gruppo, o familiare, io considero, vedo sempre la persona immersa nelle sue relazioni e la “leggo” attraverso le relazioni e le comunicazioni che tesse.

Per me immaginare una persona avulsa dalla sua rete relazionale e/o, dal suo sistema appunto, è come pensare di interagire con un cartonato, un’immagine bidimensionale. Questa modalità di interpretare il mondo e le persone all’inizio l’avevo scelta perché lo trovavo brillante, interessante, poi si è rivelato una modalità di lettura dei contesti e delle persone che ormai fa parte di me.

E nel caso di una terapia individuale?             

Sempre, anche in quel caso la mia modalità di lettura è la stessa, quella persona la vedo immersa nella sua rete di relazioni ovviamente con la consapevolezza che quello che il paziente mi comunica è il racconto di queste relazioni filtrato dal suo pensiero, ma questo non toglie l’importanza dell’informazione

Dottoressa Ius le faccio la domanda che ho fatto a molte sue colleghe, può sembrare banale ma non credo che lo sia, perché il vostro è un lavoro particolare siete a contatto con le nostre parti profonde, ci vuole una passione, una vocazione particolare per fare questo lavoro.

Lei perché lo ha scelto, cosa l’ha spinta?

Anche se è un po’ difficile ripescare decisioni e scelte fatte ai tempi del liceo, posso comunque dire con sicurezza che quando ho scelto la Facoltà di Psicologia avevo già come progetto di diventare Psicoterapeuta. Ricordo nettamente di aver sempre provato un sentimento di empatia nei confronti delle persone accompagnata dalla sensazione di non avere gli strumenti giusti per gestirla.

Sentivo di “entrare in risonanza” con gli aspetti emotivi delle persone, ma non sapevo come gestire questa capacità. Questo credo sia stato uno dei motivi che mi hanno spinta a scegliere questa professione, questo entrare in risonanza doveva avere una spiegazione, una “funzione” anche scientifica. Ho sempre ritenuto e lo affermo ancora oggi che si debbano affrontare i temi di psicologia con un’ approccio scientifico perché la Psicologia è una scienza, quindi scegliere di studiarla e di farne una professione è stato un po’ come trovare un macchina complessa, smontarla per vedere com’è fatta dentro e imparare ad usarla.

Quindi la psicologia, gli studi per diventare psicoterapeuta, l’esperienza hanno dato una risposta e un senso differente a quello che colgo, che percepisco nelle persone e soprattutto la psicoterapia mi ha insegnato come gestire e come arginare questa mia capacità di “entrare in risonanza”.

Dottoressa Ius lei non lavora solo in studio (ha anche insegnato per molti anni), lavora sul campo, come volontaria nell’ A.N.P.AS.  mi piacerebbe che accennasse anche a questo altro impegno che so per certo che le sta a cuore!

Sì, sono contenta di poter parlare di questo mio impegno. Vorrei però fare una premessa: da quando ho iniziato a studiare psicologia, prendendo in considerazione tutti i lavori che ho fatto, da quelli da studentessa universitaria, fino all’insegnamento e alla professione di psicoterapeuta, ho sempre lavorato con gli umani e questa è una ricchezza di cui sono grata alla vita ogni mattina.  Questo non vuol dire che non si studi o non si lavori con fatica ma è comunque un privilegio. Credo di aver sempre amato la psicologia con tutto l’impegno che può richiedere studiare e lavorare è un lavoro che faccio sempre con amore. E la stessa passione e l’amore che metto nel mio lavoro li trasferisco nel mio impegno in ANPAS, è un’associazione di volontari, e quindi credo che il termine volontariato già sia di per sé associato alla passione, all’amore e alla dedizione, io mi occupo di Psicologia dell’emergenza in Protezione Civile, ho raccolto il lavoro dei colleghi che mi hanno preceduta e negli ultimi 3 anni sono stata Responsabile della Psicologia dell’Emergenza per la Commissione Nazionale di Protezione Civile di ANPAS e questo mi ha permesso di fare molte cose stimolanti  e interessanti. È un settore che sta crescendo, si sta affermando, infatti siamo stati molto presenti e credo molto utili nel 2016 durante il sisma in Centro-Italia. Questa esperienza insieme e successivamente ad una formazione molto importante approvata dal Dipartimento di Protezione Civile, ci ha permesso di formare una buona squadra che a livello nazionale può rispondere alle necessità in maniera altamente professionale  con quello che possiamo definire il “modello Anpas di psicologia dell’emergenza”.

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Il tempo delle vacanze per molti bambini e ragazzi è un tempo “proficuo” per vivere esperienze, socializzare, confrontarsi, proporsi in modo nuovo

 

Siamo a luglio, che si continui a lavorare, che si stia in vacanza in città o si parta, è comunque un periodo in cui le terapie o i percorsi intrapresi si mettono in modalità “PAUSA”.

Ho chiesto al Dottor Corbetta, arteterapista, come si vive questo momento di “interruzione”

In effetti questo è proprio il periodo in cui sospendiamo momentaneamente le sedute di Arteterapia in corso. Di solito sul finire dell’annualità o prima delle partenze per le ferie o nelle sospensioni per le feste, la frase che sento spesso ripetere da colleghi e operatori è: “dobbiamo sospendere proprio adesso, se ci fossero state ancora due o tre sedute … eravamo proprio al punto di svolta”. È una frase che direi anch’io!

Nelle sedute di Arteterapia mi capita di percepire il cambiamento, la modifica, la presa di consapevolezza del bambino o del ragazzo in seduta, proprio prima di una interruzione o fine di percorso (se si tratta delle scuole dove il numero di incontri è stabilita da un contratto firmato).

Dottor Corbetta le sue parole indicano una grande passione per il suo lavoro ma è ovvio che umanamente il periodo di pausa è salutare per tutti, anche per voi terapeuti. Voi siete a contatto con diverse problematiche, con il dolore, la sofferenza psichica di grandi e piccini, credo che sia necessaria una pausa “rigeneratrice”.

È proprio così! Nel corso della mia formazione, mi ha accompagnato un monito di una docente che diceva pressappoco che “noi non siamo i salvatori di nessuno”.

Mi sono ripetuto questa frase nel tempo, me la ripeto ogni giorno. Penso che sia fondamentale non pensare di essere onnipotenti soprattutto nel nostro lavoro di relazione profonda, di incontro e relazione con le persone, attraverso il quale entriamo in contatto con le emozioni, le fragilità, i punti di forza e i vissuti.

Il lavoro che svolgo è un lavoro di facilitazione rispetto a quanto succede all’interno del setting.

Cerco di condurre la persona o i gruppi con i quali interagisco, ad un’esperienza che possa essere interiorizzata ed esternalizzata.

Essere consapevoli che in un percorso noi non siamo gli attori ma i tecnici della scena, aiuta a vivere con estrema positività le pause.

Qual è quindi il suo modo di congedarsi dai suoi pazienti prima delle vacanze?

Per spiegare ai pazienti la sospensione del percorso, utilizzo prevalentemente due modalità:

  • Con i più grandi (i ragazzi della scuola secondaria e gli adolescenti): ripercorriamo il percorso attraverso le creazioni fatte (visibili in foto al computer). Con loro effettuo una verifica rispetto agli obiettivi che ci eravamo preposti, verifico l’andamento del percorso, gli obiettivi raggiunti e le nuove mete da raggiungere.
  • Con i bambini dell’asilo dell’infanzia e della scuola primaria, introducendo il tema delle vacanze, propongo un’opera artistica di chiusura di quanto si sta svolgendo, rimandando la continuazione del lavoro a settembre.

In questo modo riusciamo a mettere il percorso in standby, con la possibilità che esporteranno quanto acquisito all’interno del setting nel “qui ed ora”, all’esterno.

Il tempo delle vacanze per molti dei bambini e ragazzi che seguo è un tempo “proficuo” per vivere esperienze, socializzare, confrontarsi, proporsi in modo nuovo con chi non conoscono e sperimentare dinamiche differenti da quelle che vivono nei contesti del quotidiano.

Mi piace pensare che chi fa il nostro lavoro getti dei semi che poi germoglieranno con il proprio tempo e secondo i terreni che troveranno.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Se qualcuno dei nostri lettori (genitori, ragazzi, adulti) volesse contattare il Dottor Matteo Corbetta può scrivergli direttamente alla mail

[email protected]

3393506327

oppure al Centro di Cesano Maderno dove collabora con la Dottoressa Claudia Gorla Psicoterapeuta

Centro Medico MEDIPLUS s.n.c.
Via Val Gardena 3

 

Benvenuti o bentrovati

Buongiorno e benvenuto  (nuovo contatto dei social), e a chi ha scoperto da poco il mio blog e buongiorno e  bentrovato a chi mi conosce già. Poiché ho diverse iniziative e attività sia in corso, sia da proporre, ho deciso di farne un riepilogo.

Inizio dalla mia attività di Editora-Editrice-Editore chiamatemi come volete, la casa editrice A.G.Editions ha sede in Francia ma pubblica in diverse lingue , francese, spagnolo ma soprattutto italiano in quanto il mio lavoro è soprattutto rivolto all’Italia.

A.G.Editions è una piccola realtà, alcuni la definiscono di nicchia, non credo che sia un difetto ma nemmeno una grande virtù, una casa editrice vive e/o sopravvive se vende libri è questo il nostro scopo, quindi da una parte essere di nicchia ci dà una connotazione particolare, dall’altra a volte penalizza.

Noi cerchiamo di dare voce a chi ce l’ha ma non riesce a farla sentire : con i libri sul Mutismo Selettivo per esempio ma non solo.

Cerchiamo di affrontare argomenti come la genitorialità e le problematiche di coppia attraverso libri divulgativi.

A volte ci avete inviato delle sinossi, ad alcuni abbiamo risposto ad altri no e mi scuso, anche se visto il tempo che è trascorso è chiaro che non abbiamo potuto prendere in considerazione le vostre proposte, quando gli argomenti sono specifici e hanno un target preciso il team di lettori che ci aiuta a valutare un testo, non ha sempre tempi velocissimi.

Quando dico che cerchiamo di dare voce a chi non riesce a farla sentire vuol dire che la nostra linea editoriale sta spostando il suo timone sempre più in questa direzione. Se avete argomenti da proporci non esitate a contattarci alla nostra mail:

ci interessa la Psicologia divulgativa;
ci interessano le novità sulla Didattica;
ci interessano approcci nuovi e alternativi su come “la scuola” come insegnanti e come studenti;
ci interessano i disagi infantili e adolescenziali;
ci interessano i disturbi, l’ansia, il bullismo.
Se avete un libro nel cassetto, se volevate scriverlo da tempo e non avete mai avuto il tempo (=coraggio?) per farlo forse è il momento per inviarci il vostro “manoscritto” (file in word o in pdf 😀scriveteci a questa mail
[email protected]

 

 

Adriana Cigni

Editrice

Organizzatice di seminari e formazioni

Creatrice e coordinatrice del progetto “Mi prendo cura di…”

Collaboratrice e cordinatrice del progetto Formazioni  sul Mutismo Selettivo dello Studio S.M.A.I.L.

 

ll morso. Ne parliamo con la Dottoressa Marelli

IL MORSO

 Dottoressa Marelli ogni anno, in molti asili, si consuma sempre lo stesso “dramma”, mi riferisco al dramma del morso! Sono tanti i genitori disperati perché i loro bambini tornano a casa con segni evidenti dovuti a morsi di altri bambini. Questo tema è spesso fonte di preoccupazione sia per i genitori dei morsicati che dei morsicatori, , ammetto di essere stata io stessa anni fa uno di questi genitori, in classe di mio figlio c’era un bambino che invece del segno di zorro, lasciava “ l’impronta dentaria” sulle braccine di molti suoi compagni. Perché un bambino sente l’esigenza di mordere?

Per poter capire meglio il fenomeno è necessario tuttavia però fare delle premesse. La questione più importante è relativa all’età. Sebbene, nel primo anno di vita,  il morso sia una modalità fisiologica di entrare in relazione con il mondo, non tutti i bambini mordono, quelli che lo fanno possono cambiare l’intensità e la frequenza dei morsi.

Il morso consente al bambino di esplorare l’ambiente circostante, di valutare la consistenza dei materiali, il sapore degli oggetti, e gli permette di fare esperienza diretta delle cose che lo circondano.

La bocca è un organo di senso fondamentale, ed è anche attraverso essa che si fa esperienza del mondo, specialmente nei primi mesi di vita.

Sarà accortezza dei genitori favorire questo processo, evitando di mettere intorno al bambino oggetti pericolosi o facili da ingerire. Per il resto via libera all’esplorazione!!

Per i bambini poter fare esperienza di ciò che li circonda, attraverso la bocca, è un passaggio non solo importante ma fondamentale. Questo principio vale sia per gli oggetti  sia per quelli animali domestici per esempio e si estende anche ai pari e, a volte, anche agli adulti che stanno intorno al bambino.

È un processo che serve sia per conoscere l’altro sia per osservare l’effetto che fa il proprio morso, l’azione che ha sugli altri. Solitamente è una fase passeggera che fa parte dell’evoluzione stessa del bambino sotto l’anno di vita.

Ma se continua? Se il bambino continua a mordere appunto come abbiamo detto nell’incipit anche quando fa il suo ingresso nella  scuola materna?

Dopo il primo anno di vita  il morso ha un significato diverso?

Successivamente il morso può avere diverse funzioni, ad esempio può essere un monito, un avvertimento che il bambino può utilizzare come modalità comunicativa.

A due anni il bambino può utilizzare la modalità del morso per esprimere appunto la propria rabbia o per “attaccare” gli altri.

Occorre ricordare due cose:

  • L’emisfero sinistro del nostro cervello (quello deputato al linguaggio verbale, al ragionamento ed alla logica) raggiunge la sua maturazione verso i tre, quattro anni. Ciò vuole dire che i bambini piccoli non sono in grado di comunicare il loro disagio utilizzando le parole. Ecco perché ricorrono ad altri metodi, tra cui il morso.
  • Noi adulti abbiamo la funzione fondamentale di mediatori. Dato che né l’emisfero sinistro né tantomeno la COF (corteccia orbito frontale, deputata alla regolazione emotiva), sono totalmente funzionanti e sviluppate, siamo noi adulti che fungiamo da rispecchiamento. Pertanto sarà di fondamentale importanza il modo in cui noi gestiamo i nostri conflitti e come riusciamo a regolare i loro.

Il morso rappresenta per il bambino quindi anche una modalità di entrare in relazione con il mondo, ma che consigli può dare ai genitori e agli insegnanti? In pratica cosa si può fare? I bambini che mordono a volte sono isolati, esclusi come evitarlo? E come fare in modo che il bambino cambi la sua modalità di “comunicazione” ?

Prima di passare ai consigli pratici bisogna affrontare una questione importante: quella del giudizio dell’adulto.

Vorrei che fosse ben chiaro che NON CI SONO BAMBINI CATTIVI e BAMBINI BUONI. Chi morde non è il carnefice e, viceversa, chi viene morso, non è la vittima. Spesso si tende a consolare il bambino che ha subito un morso e a non curarsi del bambino che ha dato il morso. Questo è errato ed andrebbe evitato. Entrambi i bambini, dopo l’atto, hanno bisogno di essere aiutati a regolare l’accaduto. Hanno bisogno appunto che l’adulto funga da mediatore dei loro vissuti emozionali, senza sentirsi in colpa, o senza sentirsi giudicati. Spesso accade che gli stessi bambini, se l’adulto non interviene immediatamente, sono in grado di regolarsi e di ripristinare il rapporto con il loro pari.

Proprio perché è fondamentale per la crescita e la maturazione celebrale del bambino (0-3 anni), il modo in cui noi adulti interveniamo, ecco cosa VA EVITATO assolutamente.

  • punire il bambino che ha morso. Primo perché, come detto sopra, essendo la corteccia orbito frontale e l’emisfero sinistro ancora immaturi, i bambini non comprenderebbero assolutamente la ragione. Sarebbero sopraffatti dalla reazione dell’adulto senza comprenderne le ragioni;
  • mordere il bambino a nostra volta. Inutile dire che questo creerebbe ancora più confusione nel bambino e non servirebbe a niente, anzi peggiorerebbe la situazione. Le azioni dei genitori sono un esempio di comportamento per i bambini, se mamma e papà mordono anche loro allora …mordere si può;
  • mettere in castigo il bambino. Per lo stesso discorso di sviluppo delle funzioni cerebrali il castigo nella primissima infanzia (0-3 anni) è INUTILE.

Cosa allora fare? Come intervenire senza interferire con il normale sviluppo del bambino?

  • Se si assiste ad un morso, questo vale sia a casa, al nido, al parco, lo si deve interrompere con un netto NO.

  • Se il morso è rivolto a noi durante l’allattamento o durante il gioco, la nostra reazione non deve essere né di svalutazione o di derisione e né aggressiva. Se il bambino ci morde gli si comunica che “No”, non si fa, perché fa male e noi non intendiamo subire e ci si allontana qualche minuto, sia per calmarci se siamo arrabbiati sia per permettere a lui di cominciare a registrare che le azioni violente non sono gradite. Così facendo anche lui imparerà che ci si può difendere dalla violenza e che non deve necessariamente subirla.
  • Intervenire con fermezza senza però aggredire il bambino a nostra volta. Si può dire semplicemente “no, non si fa”. Molti genitori restano un po’ contrariati rispetto a quest’ultimo consiglio. Poiché dicono “io ho fatto così, ma X lo ha fatto di nuovo!” ciò che noi genitori dovremmo sempre tenere a mente è che il processo di crescita e di apprendimento è lungo. A noi spetta il compito di seminare. Non è detto che raccoglieremo i frutti il giorno dopo la semina, ma se abbiamo agito rispettando la natura del bambino, rispettandolo come individuo e indirizzandolo verso la propria AUTOREGOLAZIONE EMOTIVA, avremmo senz’altro cresciuto un adulto sano ed empatico.
  • Affrontare la cosa senza ansia e senza apprensione. NON è grave mordere o essere morsi. Cerchiamo al limite di comprendere come mai il morso ci attiva così tanto e se ha a che fare con qualcosa che riguarda noi, la nostra infanzia, più che nostro figlio.
  • Se il bambino è piccolo occorre fornirgli qualche gioco da mordere. Ne esistono moltissimi, di diverse forme e colori (ad esempio Sophie la giraffa).
  • Tradurre sempre al bambino (superato l’anno di età), con le parole, ciò che pensiamo volesse esprimere con il morso (sei arrabbiato? Volevi giocare con X? Ti sei fatto male?).

 E se continua? Il bambino di cui parlavo all’inizio, compagno di scuola di mio figlio, purtroppo si fece una vera propria nomina di morditore selvaggio, non ha smesso neanche alle elmentari.

Dopo i due/tre anni il discorso cambia. Superata la fase in cui il morso è esplorativo, conoscitivo e comunicativo,  se il bambino continua a mordere anche senza un apparente motivo, allora vale la pensa di interrogarsi e di fermarsi a riflettere. Il morso a quell’età può essere un campanello di allarme che indica un disagio. Se la modalità del morso continua ci si  dovrebbe rivolgere ad uno psicologo esperto di età evolutiva che aiuti i genitori  ma soprattutto il bambino. Spesso si sottovaluta il fatto che i bambini che mordono, specie, dai 2 anni in su, hanno anche loro un disagio o un malessere ma non hanno ancora gli strumenti per gestirlo in maniera differente, hanno solo bisogno di essere compresi e aiutati.

Dottoressa Alessandra Marelli

Studio a Senago

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Presso il Centro Pediatrico Itaca

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Compiti o non compiti NON è questo il problema. Ne parliamo con la Dottoressa Marelli

 

Dottoressa Marelli pongo anche a lei la domanda di rito del momento : compiti sì  o compiti no?

Compiti sì, compiti no … credo non sia questo il punto.

La domanda che farei è invece “che tipo di compiti?”, questa è la questione sulla quale ragionare.

L’ideale sarebbe assegnare dei compiti che agevolino il rientro a settembre, e penso sia ai bambini che ai ragazzi più grandi, una sorta di attività cognitiva che serva a non perdere il filo del lavoro fatto durante l’anno e che ponga le basi per quello che verrà.

Occorre però   fare delle distinzioni tra i bambini della scuola primaria e i ragazzini e ei ragazzi della scuola media e superiore. I compiti dei bambini dovrebbero tener conto di due fattori: del fatto che si è comunque in estate, che si parta o meno, prendere in considerazione anche i loro interessi. Quindi per stimolare la curiosità, l’osservazione, la manualità perché non assegnare un esperimento, che riguardi la fisica, la biologia o la zoologia?

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Per esempio, catalogare le foglie degli alberi, o gli animali che incontrano al mare, in montagna o nei parchi in città, o ancora la frutta e gli ortaggi di stagione, ormai ci sono anche gli orti cittadini in molte località.

Insomma, imparare divertendosi! Forse è questo il metodo più semplice, le conchiglie si possono classificare (per i più grandi) ma con le stesse conchiglie si possono usare per ripassare le 4 operazioni. Si può insegnare a rispettare il mare, si può parlare dell’inquinamento, della plastica, e se si è in montagna si avrà a disposizione forse ancora più materiale che la natura ci offre.

Ai bambini piace raccogliere, conservare, conoscere i nomi delle cose.

Sì, fare tutto con leggerezza e con il giusto dosaggio ma soprattutto nel momento giusto, perché i bambini hanno bisogno anche di riposare, di NON FAR NIENTE, di non pensare a nulla, di rilassarsi.

E cosa possiamo dire ai ragazzi più grandi?

Anche loro hanno bisogno di riposo ovviamente! Gli auguro di viaggiare, di aprire la mente a nuove esperienze

Ai ragazzi delle medie e delle superiori io dico che un ripasso ci vuole, su questo francamente non ho alcun dubbio, magari concentrandosi sulle materie nelle quali si hanno più lacune. Il concetto che vorrei fortemente trasmettere è che risulta assolutamente inutile copiare i compiti delle vacanze da un amico o trovarli magari su internet, è un discorso di responsabilità personale.  Rivedere alcune lezioni, svolgere qualche esercizio non è un favore che si fa a terze persone come genitori e insegnanti, lo fate per voi stessi, per cominciare l’anno con un po’ più di sicurezza e fiducia nelle vostre capacità, e non con lo stesso senso di panico del “non mi ricordo più niente”. Avere qualche strumento in più per approcciare nuove conoscenze fa bene all’autostima e vi fa sentire più sereni, e vi farà sentire meno la fatica del rientro.

E poi leggete, leggete tutti a qualsiasi età, gli ultimi dati ISTAT sono inquietanti, l’analfabetismo non è stato estirpato, anche a causa dei tablet e degli smartphone, ci sono tantissime persone che non sanno né leggere e né scrivere.

Leggete anche quello che vi viene assegnato o quello che  preferite, ma leggete.

 Dottoressa Alessandra Marelli

Studio a Senago

VIA SARAGAT, 11 – 20030 – SENAGO 20030 – SENAGO (MI)

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ESTATE. Compiti sì, compiti no, ne parliamo con la Dottoressa Tagliabue

ESTATE. Compiti sì, compiti no, ne parliamo con la Dottoressa Tagliabue

I bambini d’estate hanno moltissimo tempo a disposizione.

Tempo per distrarsi, per “staccare” completamente dalla scuola, per viaggiare, andare in vacanza, giocare, divertirsi, stare in famiglia e con gli amici.

Tre mesi sono tanti e in questo lungo periodo oltre a tutto questo c’è sicuramente anche lo spazio per la lettura, per scoprire nuovi autori,  per visitare nuove librerie e  le biblioteche della propria città.

Il giovane Cicerone. Vincenzo Foppa 1464

È vero Dottoressa Tagliabue, a volte ci dimentichiamo anche che esistano, sia le librerie sia le biblioteche.  Instillare l’amore per la lettura non è cosa facile, ma non impossibile.

E i compiti?

Io credo che sia doveroso che gli insegnanti assegnino dei compiti durante la pausa per le vacanze estive,  ovviamente la mole di lavoro deve essere adeguata.

Si può dedicare un po’ di tempo ogni giorno ai compiti, ovviamente senza intralciare o sacrificare viaggi, divertimenti previsti o proposti sul momento. In questi mesi in cui non c’è alcuna ansia e non ci sono voti, valutazioni, né  orari precisi da rispettare,  i compiti serviranno a sviluppare l’autonomia del bambino, costituiranno l’occasione per rimettersi in gioco, per sperimentare le capacità di affrontare da solo le difficoltà,

Credo che quello che un genitore debba far passare è la motivazione: perché sono utili i compiti delle vacanze? Se si accetta che i bambini li facciano tutti subito, appena finita la scuola “per togliersi il pensiero”, o che si ricordino di farli solo una settimana prima del rientrok, allora certamente il messaggio che trasmettiamo è questo:

compiti = peso= fastidio= incombenza imposta.

Per la maggior parte delle volte vengono proprio percepiti in questo modo, come fare per cambiare tendenza?

Non è facile, ma credo che sia possibile far comprendere agli studenti che i compiti durante le vacanze sono una sorta di allenamento, così come lo sportivo deve allenarsi per non perdere la tonicità muscolare, così lo studente allena la mente, per non perdere le conoscenze acquisite.

Più precisamente quale potrebbe essere il ruolo dei genitori?

I genitori dovrebbero occuparsi dell’organizzazione e della pianificazione, accompagnare i figli in modo discreto:  mai sostituirsi ai bambini e  fare i compiti al loro posto! Non servirebbe a nessuno. Uno scopo dei compiti è proprio quello di far sperimentare ai bambini  le capacità di autonomia e poter pensare: “posso farcela anche da solo” . Tutto ciò sarà un ottimo nutrimento per l’autostima! Ovviamente queste indicazioni  vanno correlate in base anche all’età: i bambini piccoli hanno bisogno di una presenza più costante, una supervisione più attenta; mentre i più grandi possono lavorare in autonomia.

A mio avviso il messaggio che occorre far passare è che i compiti non sono una punizione e nemmeno una tortura, sono un mezzo per imparare a lavorare da soli, a gestire il proprio tempo senza alcuna pressione e per riprendere il concetto citato sopra, allenandosi non si rischia di arrugginire le competenze e le conoscenze acquisite durante l’anno.

Buone vacanze e buon allenamento!

Tutte le immagini sono prese dal web

 

 

 

Dottoressa Daniela Tagliabue

 

 

 

 

Daniela Tagliabue cel 340-7712729

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sede di Cesano Maderno via Valgardena 3

sede di Milano via Zurigo 28 – piazza Wagner 2

 

Piccoli esploratori crescono. I bisogni emotivi fondamentali dei bambini. Ne parliamo con la Dottoressa Trivelli

Piccoli esploratori crescono

 Uno dei bisogni emotivi fondamentali dei bambini è la sicurezza, Dottoressa Trivelli cosa fa sentire sicuro “un bambino”?

Per sicurezza il bambino intende la presenza costante di un genitore o comunque di un adulto che funga da base sicura dal quale partire per andare nel mondo ed esplorarlo. Una base calda e accogliente nella quale poter tornare e fare il pieno d’amore e di sicurezza, il “carburante” per poter partire per nuove esplorazioni.

L’esigenza di questa presenza è evidente già nei primi 12/ 24 mesi dopo la nascita, un momento delicatissimo in cui il bambino costruisce dei veri e propri modelli su di sé, sul mondo e sugli altri, in questo periodo mette le basi delle relazioni e della percezione di sé stesso attuale e futura, e perdura poi per tutta la vita.

I bambini sono naturalmente curiosi e inclini a scoprire il mondo e sé stessi e imparano a mettersi in relazione col mondo che li circonda. Basti pensare ad un bambino che impara a gattonare, a camminare, a mangiare da solo, che esplora una stanza o un parco per vedere che giochi scegliere o che, con un adulto, si diverte con il gioco del cucù.

 

Consiglio ai genitori di sostenere e incoraggiare la naturale inclinazione all’esplorazione, fungendo da base sicura e veicolando un senso di presenza e disponibilità, di condivisione dell’esperienza, di curiosità e di fiducia nelle possibilità e nelle risorse del bambino.

I vantaggi? Aumento dell’autostima e del senso di autoefficacia, maggiore autonomia.

Dottoressa quello che sostiene è profondamente vero solo se il bambino ha fiducia in sé stesso può affrontare il mondo, il suo mondo e i suoi pari facendo ricorso alle sue risorse. Però non tutti i genitori sono uguali, alcuni per diversi motivi, per storie personali non riescono a reprimere la loro ansia, il senso di preoccupazione, la tendenza ad “evitare” al proprio figlio ogni possibilità di rischio. Molti vorrebbero fortemente essere più “leggeri” ma non ci riescono. Credo che ci rivolgiamo anche a loro.

In effetti se si impedisce al bambino di esplorare, se ci si sostituisce continuamente nelle azioni apparentemente difficili, si dà al bambino il messaggio “tu non sei capace”, oppure “questo è troppo pericoloso per te, tu non hai la forza, il coraggio, di farlo”, minando così l’autostima, la fiducia in sé stesso e nel mondo circostante.

Oggi sappiamo che percepire una situazione come altamente pericolosa e sentire di non avere le risorse interne ed esterne sufficienti per poterla affrontare, è un meccanismo che aumenta notevolmente il senso di insicurezza e i livelli d’ansia nel bambino.

Tutto questo riguarda quindi ciò che prova il bambino quando si trova ad affrontare una situazione, quindi parliamo di emozioni?

Esatto! Parliamo anche di emozioni, come veicoli di informazioni sul mondo e su di sé in relazione al mondo. I bambini hanno bisogno di poter comprendere e dare un senso alle loro emozioni che costituiscono un elemento fondamentale per il loro sviluppo.

L’esperienza emotiva accompagna l’individuo in tutto il ciclo di vita, alcune emozioni possono essere talmente intense da spaventare anche un adulto, per la veemenza con la quale emergono, possiamo immaginare l’impatto che hanno sui bambini.

Le emozioni possono essere destabilizzanti, per questo è necessario che il bambino senta e abbia la possibilità di poterle esprimere tutte ai genitori e agli adulti che si prendono cura di loro. Ma non basta. Le emozioni e le loro manifestazioni devono essere ascoltate, accolte, nominate per nome e regolate dagli adulti. Ci possono essere vari modi per farlo anche giocando, ma bisogna insegnare ai bambini ad esprimere, riconoscere, nominare le emozioni, in tal modo si evita che ne siano sopraffatti.

Imparando a comprendere che quello che sentono si chiama:

paura, felicità, tristezza, noia, rabbia renderà meno pesante quell’emozione!

Dottoressa Trivelli, per concludere questo breve excursus sulle necessità fisiologiche dei bambini potremmo riassumere che per permettere una “serena crescita psicologica”, bisogna “lavorare” su tre bisogni fondamentali:

Il bisogno di sicurezza;

il bisogno di esplorazione;

il bisogno di regolazione dello stato emotivo

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 Dottoressa Trivelli
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Estate. Compiti sì, compiti no.  Oltre la polemica parliamo di …noia con la Dottoressa De Ponte

Estate.

Compiti sì, compiti no. 

Oltre la polemica parliamo di …noia con la Dottoressa De Ponte

Con l’arrivo dell’estate i genitori devono affrontare due problematiche: l’organizzazione delle ferie, e il tempo libero dei figli col solito appuntamento con i compiti sì- compiti no.

Bisogna tener conto di diversi fattori:

non tutte le famiglie partono per le vacanze

non tutti gli insegnanti assegnano i compiti delle vacanze.

L’unica cosa sicura è che i bambini e i ragazzi possono finalmente disporre del proprio tempo, per tutti è il periodo in cui ci si sveglia tardi, non ci sono impegni quotidiani, né si vive l’ansia dei voti.

Ci potrebbero essere i compiti delle vacanze

Alcuni insegnanti li ritengono utili e importanti, altri pensano che in questo periodo il bambino debba solo ricaricarsi e abbia bisogno di un totale distacco da tutto ciò che riguarda la scuola. Io credo che certamente i compiti siano importanti per consolidare gli apprendimenti ed evitare che il bambino li dimentichi, ma l’estate deve essere il periodo giusto per vivere nuove esperienze, diverse da quelle scolastiche. È il periodo per recuperare tutte le relazioni, familiari e amicali, che durante l’inverno, a causa dei ritmi serrati, non hanno potuto “coltivare”  e sviluppare . La scuola e le attività extrascolastiche prendono molto del tempo del bambino, oggi ci stiamo rendendo conto che forse prendono anche troppo tempo. Le settimane dei bambini sono cadenzate da impegni come se fossero piccoli manager e manca il tempo per annoiarsi.

Il bambino ha diritto alla noia?

Mi è capitato varie volte di chiacchierare amabilmente con genitori (specialmente mamme!) ed essere lasciata da sola di punto in bianco perché: “scusa vado perché il bambino si annoia da solo”.  Il bambino non piangeva, non si lamentava …semplicemente non faceva nulla.

La noia non è mica una patologia!

Il bambino deve avere il tempo per annoiarsi, per rilassarsi per non avere scadenze, tempi da rispettare, deve imparare a vivere la noia e a superarla, se vuole.

Sì, l’ho verificato con mio figlio, da piccolo non si annoiava mai (figlio unico) inventava giochi incredibili con i pelouches, la sua cameretta diventava una classe (lui ovviamente il maestro), o un palcoscenico teatrale, inventava conversazioni e “pièces”, manifestava una fantasia incredibile ora è un adolescente è tutta un’altra storia…

La noia dà la possibilità di accedere ad aspetti di sé stessi sconosciuti, è uno spazio di tempo positivo ed è un potente stimolo alla creatività. La noia si può “vivere” anche insieme. È bello stare senza far niente con i genitori, con i cuginetti, con gli amici. È bello anche stare senza far niente con sé stessi, si scoprono giochi vecchi, se ne inventano dei nuovi, si mette in moto la fantasia.

Riscopriamo anche i passatempi più semplici che possano anche creare momenti di rilassamento fisico e mentale del bambino, a casa in balcone, o stesi sull’erba in un giardino, o al mare o in montagna guardiamo il cielo insieme a lui/lei, il colore, le nuvole, le forme delle nuvole, il movimento. Guardiamo le cose belle del mondo senza sorvolare, senza fretta.

Facciamoli scrivere. Quello che vogliono, sull’argomento che vogliono.

A volte i bambini sono riluttanti alla scrittura perché hanno paura di essere giudicati per la forma, la sintassi, l’ortografia, rassicuriamoli che la loro “opera” non sarà valutata, scrivere deve essere un piacere per esprimere sé stessi. Potremmo riproporre in versione rivisitata il Diario, quello sul quale alcuni di noi riversavano gioie e dolori, e i più grandi anche i drammi amorosi, oggi non è più di moda ma ai più piccoli si può proporre una sorta di cronistoria delle emozioni:

oggi sono felice perché…

oggi sono arrabbiato perché…

oggi ho giocato a….

La lettura

Si parla molto anche di questo, gli insegnanti propongono delle liste di libri da leggere.

Per me vale la regola che il bambino debba scegliere un libro in base ai suoi gusti, qualsiasi esso sia,  e uno dalla lista proposta dagli insegnanti. Un’idea che renderebbe la lettura più piacevole e coinvolgente sarebbe quella di leggere tutti il libro “della scuola”, tutti: mamma, papà, sorelle e fratelli se ce ne sono. Tutti.

Il libro diventerebbe così argomento di discussione collettiva, di critica, di spiegazioni.

Renderebbe tutto più leggero e divertente, fare le cose insieme spesso è sinonimo di fare le cose con amore.

Tutte le immagini sono prese dal web

 

 

La dottoressa Anellina De Ponte riceve a:

  • Via Nazionale delle Puglie 51

Cimitile (NA)

Tel. 3288493076

 

Il trauma, le conseguenze neurobiologiche. L’EMDR Intervista alla Dottoressa Paola Cipriano

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce il trauma in questo modo:

“Il trauma è il risultato mentale di un evento o una serie di eventi improvvisi ed esterni, in
grado di rendere l’individuo temporaneamente inerme e di disgregare le sue strategie di difesa e di adattamento”.

Dottoressa Cipriano oggi parliamo di TRAUMA e delle nuove strategie per superarlo.

Possiamo definire due tipi di traumi:

il Trauma con la T maiuscola che è quello conseguente ad un evento ad impatto fortissimo: la morte, la malattia, abusi, violenze, il terremoto ecc.;

il trauma con t minuscola, cioè tutti quei traumi causati da esperienze stressanti nelle quali non c’è un pericolo fisico, non si rischia di morire, si vive però un’esperienza che disorganizza la mente, perché non è un attacco al sé fisico ma un attacco al sé psichico.

Il trauma con la t minuscola è altrettanto importante e impattante, bisogna comprendere che se un trauma non  viene elaborato rimane immagazzinato nella memoria, potremmo dire cristallizzato nella mente, intatto, così come l’abbiamo vissuto, come una sorta di dolore, di dispiacere perennemente rinnovato.

Oggi si può trattare il trauma con l‘ EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), una nuova terapia che integra la psicoterapia con le neuroscienze, inserendo cioè nella psicoterapia tutto quello che le neuroscienze ci hanno insegnato e dimostrato sulla mente. Siamo partiti dal presupposto che il trauma disorganizza la mente, ecco che il mio lavoro di psicoterapeuta EMDR è quello di integrare, desensibilizzare e riorganizzare la mente da quel preciso ricordo.

Dottoressa, un trauma non è solo un evento che provoca un danno psichico ed emotivo in quel momento della vita della persona, il trauma è ben altro, ha effetti che possono perdurare nella vita di un individuo, quali sono le conseguenze?

Possiamo avere come tipo di conseguenza del trauma una serie di disturbi tra i quali il disturbo post-traumatico da stress, ma esistono molti altri disagi psicologici, il DSM-5 (Manuale Di ) dimostra che lo stress vissuto in età infantile è legato ai disturbi mentali, al punto che l’OMS ha istituito un piano d’azione per la salute mentale fondato su alcuni concetti ormai consolidati da numerosi ricerche e cioè che l’esposizione a eventi stressanti in giovane età è un fattore di rischio per l’insorgenza di disturbi mentali e quindi può essere prevenibile. I gruppi vulnerabili sono: membri di famiglie che vivono in povertà, persone con malattie croniche, neonati e bambini sottoposti non solo a maltrattamenti fisici ma anche a trascuratezza emotiva.

Cos’è la trascuratezza emotiva?

È il non sentirsi visti per quello che si è, io uso la parola “sentire”, il bambino non si sente “sentito” da parte dei genitori, non c’è un’attenzione, una sintonizzazione sui suoi bisogni, sulle sue esigenze e quindi si sente poco visto, non riconosciuto.

Se si riflette sembra nulla di grave, non ci sono violenze fisiche, ma c’è un‘atmosfera emotiva di indifferenza, la tristezza del bambino, i suoi piccoli ma importanti problemi quotidiani non vengono considerati, non c’è conforto, rassicurazione, anzi da parte dei genitori c’è una banalizzazione.

Quei  “dai non fa niente”, “ma quanto la fai lunga”, “ora non ho tempo per queste stupidaggini”, in realtà costituiscono un trascurare emotivamente il bambino, un “mal uso” (un uso disfunzionale) della relazione.  In alcuni casi questa trascuratezza può avere conseguenze sul cervello e sul comportamento del bambino, ma ci sono anche altri gruppi vulnerabili che possono subire la “trascuratezza emotiva: gli anziani, i gruppi di minoranza, le persone discriminate, le persone esposte a catastrofi naturali.

Ci sono due momenti della vita in particolare in cui il trauma può avere un’influenza importante sul cervello, nei primi 5 anni di vita e verso i 12-13 anni.

Nei primi 5-6 anni di vita: subire un trauma, essere esposti ad un evento stressante in questi anni rende il cervello meno resistente agli effetti degli eventi stressanti successivi. Consideriamo un bambino maltrattato, il trauma è cronico, o la trascuratezza è cronica, è uno stile relazionale, il cervello produce livelli tossici di neurotrasmettitori, aumenta il cortisolo, detto anche ormone dello stress, a livelli esponenziali.

L’aumento di questo ormone produce una serie di conseguenze che riguardano l’ippocampo (un’area del cervello fondamentale per la memoria e la gestione delle emozioni).

In sostanza ci sarebbero dei cambiamenti nel cervello sia conseguentemente a dei traumi sia alla “trascuratezza emotiva”?

Sì,  degli studi hanno rilevato cambiamenti in alcune zone cerebrali in soggetti che avevano subito esperienze traumatiche, questi cambiamenti li rendono più sensibili, più vulnerabili rispetto agli eventi della vita, come se mancassero delle giuste risorse per affrontarli. Questi cambiamenti interessano queste zone del cervello:

a livello della corteccia prefrontale (la fronte) zona deputata alla logica e al ragionamento;

a livello del corpo calloso (una sorta di ponte che collega i due emisferi cerebrali destro e sinistro);

a livello dell’amigdala che è legata alla paura e al riconoscimento delle espressioni facciali;

a livello del lobo temporale.

Per questo è molto importante prevenire e aiutare i bambini, nei primi sei anni di vita il nostro cervello ha una iperproduzione dendritica (i dendriti sono delle ramificazioni che partono dal neurone = cellula nervosa) di connessioni, è un’attività intensa specifica di questo periodo di crescita, non succederà mai più che in tempi così brevi ci sia una così intensa attività neuronale.

L’altro momento importante è verso i 12-13 anni, periodo durante il quale avviene il “pruning”, quella che potremmo definire una “potatura” dendritica (NdA: i dendriti sono delle ramificazioni che partono dal neurone = cellula nervosa ed entrano in contatto con altri neuroni tramite le sinapsi), cioè alcune sinapsi vengono eliminate. Potremmo definirla una ristrutturazione della “casa” cervello, un riassetto, l’eliminazione di tutte quelle connessioni che non serviranno alla vita di adulto. Si tratta quindi  di un momento delicatissimo in cui un evento traumatico ha un impatto maggiore e più grave e  duraturo rispetto ad un adulto.

Le esperienze dei ricordi non verbali rimangono frammentati, decontestualizzati come se fossero intrappolati nelle reti neuronali, ed è questa la base dei sintomi che ne derivano. Il trauma quindi non è solo emotivo, cognitivo, ma ha anche una base neurobiologica.

Il trauma e le esperienze molto intense creano dei circuiti di memoria implicita che rimangono chiusi come in una “bolla”, il compito dello psicoterapeuta è quello di aprire questa “bolla” e far sì che quei dati vengano integrati in tutto il sistema neuronale e cerebrale.

L’EMDR  è efficace a qualsiasi età, questi cambiamenti possono interessare anche gli adulti?

Sì, il cervello in questo senso è plastico e l’EMDR ha effetti anche sugli adulti e con questo metodo si possono far tornare allo stato normale quelle parti del cervello che si erano rimpicciolite.

Cos’è quindi L’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing)?

L’EMDR è una psicoterapia legata all’elaborazione dell’informazione e si basa su un processo fisiologico naturale, è la terapia più studiata al mondo ed è quella che ha più ricerche che ne dimostrano l ‘efficacia. È stata dichiarata dall’OMS il trattamento di elezione per la risoluzione dei traumi, un modo nuovo di considerare la patologia, in pratica il trattamento terapeutico può provocare cambiamenti neurofisiologici e biologici e quindi è in grado di rimodellare il cervello. Gli effetti sono evidenti, una volta che l’esperienza è stata integrata si sta molto meglio, non si hanno sintomi e la qualità della vita migliora. Il paziente attraverso la terapia dell’EMDR impara a creare una storia di vita della sua infanzia più coerente, con una prospettiva più costruttiva, e acquisisce una maggior sicurezza emotiva e autonomia. Per chi ha figli si ha anche una migliore relazione con essi perché si interrompono quei meccanismi ormai dimostrati di trasmissione transgenerazionale dei traumi, si interrompono quei disturbi e quelle caratteristiche che vengono spesso ereditate.

L’EMDR permette quindi al cervello di ricominciare da dove si era “inceppato” il meccanismo, attraverso i movimenti oculari vengono attivati in materia contemporanea i due emisferi, destro e sinistro, lavorando su episodi precisi della propria vita, la riattivazione provoca il ricollegamento e la comunicazione tra i due emisferi dà il via all’elaborazione che era stata interrotta in passato.

Perché è così importante questo collegamento?

Perché per elaborare un ricordo è necessario, a livello neurobiologico, che i due emisferi possano comunicare tra di loro in maniera equilibrata in modo che non predomini il destro (legato all’emozione, all’istinto, all’aspetto creativo), né il sinistro (legato alla razionalità della logica), l’EMDR permette di ristabilire questo equilibrio.

La Dottoressa Paola Cipriano riceve
in Viale Ungheria, 28
20138 Milano
Zona Milano Sud, Corvetto, Corso Lodi.
Santa Giulia
Milano
Zona Rogoredo
Telefono:

344 340.06.16       mail:   [email protected]

 

L’aggressività nei bambini – una fiaba per aiutarli a comprenderla e gestirla

Alcuni bambini manifestano un comportamento aggressivo, non solo a casa ma anche a scuola, come reagire e come arginare questo comportamento?

La Dottoressa Marelli ci spiega che :

“L’aggressività nei bambini non è qualcosa di patologico né tantomeno di raro. Non si dovrebbe negarla fingendo che non esista, occorrerebbe invece legittimarla senza farla coincidere con la totalità del bambino.

Ciò che sarebbe utile fare quando i bambini reagiscono, oppure si comportano in maniera aggressiva, è cercare di contenere l’angoscia che sta dietro alla loro reazione aggressività. Porsi oltre ciò che sembra. Naturalmente se l’aggressività è agita fisicamente questa va necessariamente contenuta per evitare che il bambino faccia male a sé o agli altri e per fare in modo che si senta protetto.

Il tumulto psichico che spesso i bambini attraversano, le sfide evolutive che devono quotidianamente affrontare, i cambiamenti che di sovente accadono nelle loro vite (arrivo di un fratellino/sorellina, cambio casa, passaggio scuola, separazione genitori ma anche litigi tra coetanei, rimproveri degli adulti, piccole frustrazioni) contribuiscono spesso a rendere l’aggressività un evento piuttosto frequente. È assolutamente fisiologico e auspicabile che un bambino la possa sentire e non la debba reprimere (segno di un ambiente non facilitante). Tuttavia noi adulti abbiamo il compito di contenerla e di fare sì che questa forte sensazione non fagociti il bambino e soprattutto non lo faccia sentire sopraffatto da essa.

Uno strumento molto utile che si utilizza in terapia, ma che consiglio a tutti i genitori, è la fiaba, in questo caso una fiaba che ho scritto, che racconta, nel linguaggio dei bambini, come l’aggressività ci possa fare sentire “squali” e far sì che gli altri si allontanino da noi perché impauriti dalle nostre reazioni. Tuttavia il messaggio è che è possibile contenerla e gestirla. E, come deve essere in ogni fiaba, il lieto fine è garantito. Ci sarà sempre qualcuno che non si farà spaventare dalle apparenze, che non si fermerà ad esse, ma che saprà cogliere l’interezza del nostro essere. E anche, ciò che sentiamo noi, è spesso un sentimento che anche gli altri provano.

Potete leggere questa fiaba, impararla a memoria e raccontarla ai vostri bambini quando sentite che stanno affrontando questa sfida. 

È adatta a bambini a partire dai due anni.

Lo squalo Piero

“C’era una volta un signore che si chiamava Giovanni ma per tutti era il Signor Giò.

Il Signor Giò era un uomo buono e gentile ma aveva un difetto: era molto sbadato e distratto, un giorno decise di fare un viaggio in nave, destinazione l’isola Blu, ma una volta in viaggio si accorse di aver  preso la nave sbagliata e si ritrovò su un’isola molto strana, sperduta nel mare, piena di foglie di palma era l’isola Verde. Le foglie erano davvero tantissime e lui si divertiva tanto a giocarci, un po’ le buttava nel mare e un po’ le teneva per sventolarsi perché sull’isola faceva molto caldo. Dopo aver passato molto tempo  a giocare  cominciò ad annoiarsi, si sentiva solo voleva tornare a casa! Ogni tanto sull’isola Verde si fermavano delle navi, una attraccò proprio davanti al Signor Giò e lui felice  riprese il viaggio ma all’improvviso la nave si trovò in mezzo ad una forte tempesta, come spesso accade nella natura, e naufragò. Fortunatamente Il Signor Giò  in mezzo a quel mare gelido e profondo, vide scintillare uno scoglio tutto d’oro   lo raggiunse a nuoto  e vi si aggrappò.

Intorno non c’era nulla e il Signor Giò era molto triste e spaventato, ad un certo punto a peggiorare la situazione arrivò un grosso squalo dall’aspetto spaventoso che cominciò a girare attorno allo scoglio mostrando i suoi denti aguzzi! 

Che spavento: “Vattene via squalaccio! Lo so che sei cattivo! Mi mostri quei dentoni perché vuoi farmi male!” gridava disperato il Signor Giò, ma lo squalo restò lì, alzò lo sguardo e, piangendo gli disse “Perché mi mandi via anche tu? Tutti scappano da me perché ho un aspetto spaventoso ma io in realtà sono molto buono! È vero, a volte mostro i denti, ma non voglio fare male a nessuno. Mi sento solo e non ho amici perché tutti hanno paura! Scusa, non volevo spaventarti è solo che pensavo potessimo diventare amici, ma se vuoi vado via”.

Il Signor Giò rimase stupito, non se lo aspettava, pensava che sarebbe stato mangiato in un sol boccone, restò un momento a pensare in silenzio, si ricordò di quando era capitato anche a lui di essere stato giudicato perché nessuno lo capiva veramente  e disse: “Mi dispiace per le cose che ti ho detto. Ho sbagliato a giudicarti solo perché sei grosso e hai tanti denti aguzzi. In fondo tutti noi abbiamo dei denti. Io voglio diventare tuo amico e per dimostrartelo ti chiederò di portarmi in salvo a terra.”

Lo squalo  gli fece un grandissimo sorriso mostrando tutti i suoi denti aguzzi e disse: “ Va bene , mi presento io mi chiamo Piero! Vieni, sali su di me, ti porterò in salvo”. Il Signor Giò gli salì sulla schiena e Piero lo squalo, come promesso, lo portò sull’isola più vicina, l’isola Dei Pesci. Da quel giorno Piero  e il Signor Giò diventarono  grandi amici, passavano molto tempo a giocare e a pescare! Lo squalo non era mai stato così felice in vita sua finalmente aveva un amico! E anche il Signor Giò non aveva mai avuto qualcuno con cui passare il tempo.

Arrivò però il tempo della nostalgia,  il Signor Giò aveva una famiglia che lo aspettava e che gli mancava molto, era tempo di tornare a casa così chiese a Piero di portarlo su una nave giusta questa volta, che lo avrebbe riportato a casa. Vedendo la tristezza di Piero gli  disse: “tu sei un amico speciale per me! Non ti dimenticherò mai e ti verrò a trovare ogni anno su questa isola”. Piero  era felicissimo di aver trovato un amico e non solo uno, perché la sua vita ormai era cambiata, vedendolo giocare con il Signor Giò  gli altri pesci non avevano più paura di lui e ormai aveva tanti amici fra di loro. Piero non era cattivo, anzi era un simpaticone!  I due amici, un po’ commossi, si salutarono e da quel momento in poi si ritrovarono tutti gli anni sull’isola Di Pesci per passare del tempo insieme!”

 

 

 

 

 

 

 

Le immagini sono prese dal web, io ho curato l’editing di questa storia scritta dalla Dottoressa Marelli

 

 

 

Dottoressa Alessandra Marelli

Studio a Senago

VIA SARAGAT, 11 – 20030 – SENAGO 20030 – SENAGO (MI)

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Come aiutare una persona che sta avendo un attacco di panico. Dottoressa Alessandra Marelli

Come aiutare una persona che sta avendo un attacco di panico

Molti di noi ne soffrono di frequente, ad altri l’attacco arriva così improvvisamente e spaventa ancora di più. Cosa sono, come si manifestano? Quali sono i sintomi?

La Dottoressa Alessandra Marelli  ne parla in questo suo articolo.

“Innanzitutto occorre chiarirsi su cosa sia un attacco di panico. Credo sia importante farlo per distinguerlo da altre manifestazione ansiose che, sebbene perturbanti, non hanno lo stesso impatto di un vero e proprio attacco di panico.

Il termine “panico” deriva dal nome del dio greco Pan, per metà uomo e per metà caprone, capace di suscitare repentino e inspiegabile terrore nell’animo umano (Francesetti, “Attacchi di panico e postmodernità”).

Già dalle origini del nome possiamo cogliere una caratteristica imprescindibile dell’attacco (per essere definito di panico) ovvero la sua imprevedibilità.

Un attacco di panico è un’improvvisa paura molto intensa e totalizzante che raggiunge un picco in pochi minuti, durante i quali si verificano quattro (o più) dei seguenti sintomi (DSM V):

  1. Palpitazioni;
  2. sensazione di cuore in gola o tachicardia;
  3. sudorazione;
  4. tremori o agitazione;
  5. sensazioni di mancanza di respiro o di soffocamento;
  6. dolore o fastidio al petto;
  7. nausea o disturbi addominali;
  8. sensazione di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento;
  9. brividi o sensazioni di calore;
  10. parestesia (intorpidimento o formicolio);
  11. derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi);
  12. paura di perdere il controllo, impazzire, morire.

Le caratteristiche sopra elencate possono portare quindi il soggetto, ma soprattutto i soggetti che assistono all’attacco, a confonderlo con un infarto o con una condizione medica differente.

Se si è a conoscenza del fatto che il soggetto soffre di attacchi di panico oppure di disturbi d’ansia si può intervenire efficacemente per aiutare la persona ad uscire dall’attacco di panico. Scriverò di questo in seguito.

Gli attacchi di panico possono manifestarsi in vari disturbi d’ansia. In relazione alle modalità ed alle cause si possono distinguere 3 tipi di attacchi di panico:

  1. Attacco di panico inaspettato, quindi improvviso, senza nessuna causa apparente. Il soggetto, in questo caso, non è in grado di prevederne l‘insorgenza.
  2. Attacchi di panico conseguenti ad una data situazione. La sintomatologia si presenta in seguito all’esposizione. Ad esempio assisto ad una scena violenta (rapina, incidente, crollo, sparatoria, ecc.) e manifesto la sintomatologia sopra descritta.
  3. Attacchi di panico sensibili alla situazione, ovvero l’attacco di panico può manifestarsi o meno in seguito alla situazione temuta.

Una volta che il soggetto ha sperimentato un attacco di panico è facile che si sviluppi poi una paura molto forte legata al fatto che possa accadere nuovamente. Questo forte terrore, a volte, porta la persona ad avere condotte evitanti e ad avere pensieri intrusivi di scenari catastrofici di morte.

I soggetti che hanno avuto attacchi di panico riferiscono molto spesso di avere avuto la sensazione di “stare per morire” oppure di “stare per impazzire”. Questa sensazione acutizza la sintomatologia in una spirale crescente di terrore.

La notizia che può tranquillizzare i soggetti che ne soffrono è che l’attacco di panico è una condizione clinica che si può affrontare con successo con una buona psicoterapia (a volte anche senza il supporto farmacologico. Questo aspetto tuttavia verrà valuto dal professionista della salute mentale).

Ma ciò che spesso mi viene chiesto dai familiari, siano essi, genitori, figli, compagne/i, amici/che è : “cosa posso fare io quando XXX ha un attacco di panico in corso? Come posso aiutarla/o? Devo fare (o non fare) qualcosa?”

Proverò a rispondere a questa domanda, ricordando che, quanto dirò, non serve a curare gli attacchi di panico (per questo occorre necessariamente rivolgersi ad uno psicoterapeuta), ma è utile agli astanti per gestire al meglio l’attacco.

CONSIGLI UTILI

segue http://www.psicologomilanonord.it/attacchi-di-panico-milano.html

 

 

Dottoressa Alessandra Marelli

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Cominciamo dalla parola “BULLYING”. Il bullismo è … ne parliamo con la Dottoressa De Ponte

Cominciamo dalla parola “BULLYING” e dalla sua definizione :  Bullying is unwanted, aggressive behavior among school aged children that involves a real or perceived power imbalance. The behavior is repeated, or has the potential to be repeated, over time. Both kids who are bullied and who bully others may have serious, lasting problems.

“Il bullismo è un comportamento indesiderato e aggressivo tra i bambini in età scolare che comporta uno squilibrio di potere reale o percepito. Il comportamento è ripetuto, o ha il potenziale per essere ripetuto, nel tempo. Entrambi i bambini che sono vittime di bullismo e che fanno il prepotente possono avere problemi seri e duraturi.”

La definizione è tratta da un sito governativo americano ( www.stopbullying.gov)  che si occupa proprio di questo tema. Nella cronaca le notizie di casi di bullismo sono frequenti, ho chiesto alla Dottoressa De Ponte di analizzare questo tema da un punto di vista un po’ diverso dal solito, cominciano con una sua definizione potremmo dire “tecnica”, cos’è il bullismo e chi è il bullo?

Nella mia pratica clinica ho avuto ed ho avuto diversi pazienti coinvolti in casi di bullismo, sia vittime che bulli. Se vogliamo inquadrarlo clinicamente il bullismo si può definire come un comportamento sociale di tipo violento e intenzionale, la violenza può essere di natura fisica o psicologica. Il termine  bullismo come lei ha ben spiegato nella premessa  viene dall’inglese “bullying”,  e  proprio come nella definizione che lei ha dato si  caratterizza con una situazione relazionale in cui sono presenti un soggetto prevaricatore e un soggetto prevaricato, cioè il bullo e la vittima.

Tra i due c’è uno squilibrio di potere, il bullo si sente potente, sicuro di sé, si mostra all’altro superiore  e sottolineo si MOSTRA così, dall’altra parte c’è la vittima che non riesce a ribellarsi a  questa prevaricazione e  si mostra all’altro come una persona debole.  Nel fenomeno del bullismo, generalmente, non sono coinvolti solo il bullo o i bulli e le/la vittima/e, sono coinvolti tutti coloro che fanno parte integrante del loro mondo: i compagni che tacciono per timore assistendo ai soprusi, i genitori, i docenti.

È indubbio che a pagarne il prezzo è la vittima che va aiutata, sostenuta e supportata, ma in questo articolo cerchiamo di prendere in considerazione il bullismo osservando entrambe le prospettive, cioè analizzando anche il comportamento del bullo.

Perché un bambino, un ragazzo diventa bullo?

Credo che alla base di tutto ci sia la ricerca del POTERE, il bullo ha un potere sull’altro, il potere di provocare uno stato d’animo di paura, di ansia, di preoccupazione, di umiliazione e sottomissione. Provocare la paura fa sentire potenti. Nell’immaginario collettivo il bullo è rappresentato come un ragazzo sicuro di sé, spavaldo; questo è vero fino ad un certo punto perché nella mia esperienza ho incontrato bulli che dietro questa facciata erano ragazzi immaturi con una scarsa stima in se stessi. Per questo penso che nei casi di bullismo bisogna agire su entrambe le parti e coinvolgere il contesto familiare, scolastico e sociale, laddove sia possibile ovviamente.

Dottoressa immagino che sia una domanda “impossibile” chiederle: quali sono le cause del bullismo?

Sì, se non proprio impossibile quasi perché è un fenomeno complesso e multifattoriale che dipende da diversi fattori: sociali, familiari, dalla personalità del soggetto, dalle dinamiche del gruppo. Oggi poi al bullismo propriamente detto si è aggiunto anche il cyberbullismo in cui l’aggressione non è fisica, ma si svolge tutto in rete, attraverso il web e i social, e la vittima viene colpita tramite la diffusione di materiale denigratorio o creando gruppi di vero e proprio accanimento contro la persona. Bullismo e cyberbullismo non sono diversi, cambiano solo le modalità con cui le prepotenze e a volte vere e proprie violenze vengono veicolate.

Cosa fare?

Prima di tutto bisogna agire con interventi preventivi attraverso la sensibilizzazione e l’informazione. In questi interventi   rivestono un ruolo fondamentale i genitori e gli insegnanti.

I genitori posso monitorare i comportamenti del figlio all’interno del gruppo dei coetanei e rivolgersi agli specialisti e/o agli insegnanti quando vedono che ci sono comportamenti o manifestazioni insolite.

In classe gli insegnanti  possono favorire una “politica del rispetto” facendo in modo che tutti gli allievi vengano riconosciuti per quello che sono; inoltre possono segnalare precocemente episodi che vanno nella direzione della prevaricazione e del bullismo.

È necessario aiutare e sostenere la vittima, ma anche lavorare sul bullo e sulle sue fragilità, e sull’amore e la stima in se stesso. L’unico modo per indurre l’amore verso l’altro è cominciare ad amare se stessi.

Dottoressa ci parli di qualche sua esperienza sul campo.

Ho partecipato a diversi progetti nelle scuole, nella fattispecie, vi parlo di una esperienza in una scuola secondaria di secondo grado.

Alcuni insegnanti avevano individuato nella loro classe, la presenza di alcuni alunni che avevano comportamenti aggressivi e prevaricatori nei confronti dei loro compagni e in alcuni casi anche verso i docenti, quindi tutto faceva temere la possibilità di futuri atti di bullismo. Il nostro intervento è partito dal presupposto che la scuola non è solo un luogo dove imparare, ma  un posto dove relazionarsi, dove imparare a convivere con gli altri, è il luogo dove si vive la socialità con i propri coetanei, quindi abbiamo pensato che per ristabilire un clima di benessere e serenità fosse necessario mettere in atto delle esperienze di peer  education, educazione tra i pari. Questo progetto ha coinvolto sia studenti che docenti inserendoli in attività di formazione-informazioni, e laboratori di gruppo, all’interno dei quali i venivano affidati ai ragazzi dei ruoli precisi.

Ogni ruolo puntava sulla valorizzazione delle risorse interne e delle abilità di ciascuno, indipendentemente dalle caratteristiche (cioè erano coinvolti i possibili bulli, le probabili vittime e l’intero gruppo classe). Il fine era quello di valorizzare il “buono” e le risorse di tutti indistintamente. In virtù di questo ai cosiddetti bulli (io non amo questa parola) sono stati affidati ruoli di responsabilità; il ragazzo con atteggiamenti prevaricanti nei riguardi dei loro amici diventava per un certo tempo e per determinate attività, il tutor, il leader del gruppo classe. Il risultato è stato positivo, erano tutti molto soddisfatti! Gli adulti (i docenti e gli psicologi) gli avevano affidato un ruolo importante, avevano riposto in loro la fiducia (forse era successo raramente nella loro vita). I ragazzi che di solito venivano  considerati come quelli “da cui stare lontani”, erano ora considerati  “affidabili”.  Quindi per un certo tempo e in un certo momento era  stata tolta loro l’etichetta con cui andavano in giro per il mondo.

L’adulto che ha fiducia nel ragazzo, fa in modo che anche lui  possa avere fiducia in se stesso, è come dire:  “Se io (adulto) credo in te (ragazzo) realmente, anche tu puoi credere in te. Puoi iniziare a costruire dentro di te uno spazio d’amore per te”.

Alla fine del progetto abbiamo rilevato un cambiamento in tutte le dinamiche: alunni-alunni, alunni-insegnanti, insegnanti-insegnanti. Ognuno di loro ha sperimentato un ruolo diverso, ognuno ha incrementato il rispetto per le proprie risorse e abilità. Credo che sia un’esperienza da ripetere.

Al MIO STUDIO:

Per quanto riguarda la mia esperienza clinica in  studio  seguo pazienti sia  “bulli” che “vittime”.

Il lavoro che effettuiamo insieme, io con loro all’interno della relazione terapeutica,  è quello di costruire un percorso che li aiuti ad assumere comportamenti alternativi, ad uscire dal “ruolo” abituale; è come se avessero un “marchio”,  come se fossero “imprigionati” in un dato  “personaggio” per esempio ci sono ragazzi che hanno il “marchio del bullo” o ragazzi che “marchio della vittima”. Cerco quindi di fargli immaginare quale sia la reazione degli altri ad un loro cambiamento; io credo in un loro cambiamento di ruolo e credo che loro possano, in un certo senso, liberarsi del marchio che hanno. Metaforicamente possano, cioè, “spogliarsi”  dei panni di bullo o “spogliarsi” dei panni della vittima. Se aumenta il grado di consapevolezza rispetto ai propri vissuti, l’ aggressività, per esempio, può prendere una forma meno disfunzionale e può non essere direzionata contro le persone che vengono viste come le più deboli. Per fare ciò occorre fare un‘ azione di “alfabetizzazione emozionale”, attraverso la quale comprendano che tutte le emozioni hanno un senso, una funzione, un peso importante.

È un lavoro in cui bisogna costruire, ma anche smontare false idee e apprendimenti distorti che i ragazzi hanno interiorizzato. Spesso ho riscontrato che questi ragazzi hanno interiorizzati un messaggio del tipo: “Per affermarti devi combattere altrimenti gli altri ti schiacciano” oppure: “Se non sei forte il mondo ti mangia”, il concetto principale è quindi che “gli altri sono tutti contro di te e tu devi combattere e quindi vivere ‘contro’ anche tu

Grazie al lavoro terapeutico tutto questo può essere modificato in: “Puoi fidarti degli altri perché TU SEI IMPORTANTE per gli altri e anche loro lo sono per te”.

Per fare ciò il terapeuta deve mostrare di avere molta fiducia nel ragazzo e deve fare in modo che il ragazzo si affidi a lui. Il terapeuta si  muove con dedizione, interesse e desiderio in modo da stabilire un clima di fiducia nella relazione terapeutica. Se il ragazzo apprende che si può fidare del terapeuta,  e che il terapeuta si fida di lui, può portare la stessa fiducia fuori, nel suo mondo. Per esempio può sperimentare di sentire che un suo amico si fida di lui e che lui si fida una altro amico ancora.

La fiducia che si costruisce gradualmente durante la relazione terapeutica, consente di accompagnare il ragazzo in un viaggio,  con una continua attenzione nei suoi confronti, in modo da poter in ogni momento cambiare rotta, invertirla, verificare il percorso, per poi giungere alla meta stabilita.

La ringrazio Dottoressa De Ponte ovviamente in questo articolo abbiamo dato solo “un assaggio” di un tema difficile e molto dibattuto, non esistono formule magiche e soluzioni uniche come avviene sempre quando si parla di ragazzi, di persone bisogna agire insieme, ognuno con le sue competenze, ognuno con il suo ruolo per dare a tutti i ragazzi la possibilità di crescere, studiare e socializzare e affermarsi con serenità e nel rispetto di tutti.

Le immagini sono prese dal web.

 

La dottoressa Anellina De Ponte riceve a:

  • Via Nazionale delle Puglie 51

Cimitile (NA)

Tel. 3288493076

Mutismo Selettivo? Mai obbligare i bambini a parlare. Ne parliamo con la Dottoressa Trivelli

Dottoressa Trivelli ritorniamo ancora sul tema “Mutismo Selettivo”, molti chiedono: perché  i bambini che soffrono di questo disturbo non  devono essere sollecitati o obbligati  a parlare?

Credo che sia sempre utile spiegare ancora che il silenzio dei bambini non è un comportamento volontario e che obbligarli a parlare oltre che peggiorare il sintomo, procura loro molta sofferenza.

Credo anch’io che sia necessario ribadire alcuni concetti riguardanti il Mutismo Selettivo (in seguito MS). In breve, ricordo che il MS è un disturbo d’ansia dei bambini che si configura come la persistente impossibilità di parlare in situazioni sociali specifiche, come ad esempio a scuola, o con estranei, mentre in altre situazioni quando il bambino si sente tranquillo e a proprio agio, parlare risulta possibile.

Mutismo selettivo:raccolta degli articoli pubblicati su YOUR EDU ACTION

Il MS è un disturbo dell’infanzia diagnosticato nel DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) all’interno della grande categoria dei disturbi d’ansia, quindi pur avendolo già precedentemente affermato, il DSM-5 sottolinea e afferma che alla base del MS ci sia l’ansia.

Come viene sperimentata l’ansia in questi bambini?

L’ansia

Ansia e paura. Tre domande alla Dottoressa Trivelli

si manifesta sia attraverso le reazioni tipiche che noi tutti, bambini e adulti sperimentiamo attraverso cioè un insieme di reazioni somatiche, fra le quali : sudorazione, tachicardia, respiro corto e affannoso. I bambini spesso riportano come sintomo anche mal di stomaco e mal di testa,  e a livello muscolare la tensione a livello delle braccia e dell’addome. Ma l’ansia agisce e influisce molto sui pensieri.

Dottoressa credo che sia una specie di circuito chiuso i pensieri generano la paura, la paura genera il sintomo.

Esatto l’ansia è un’emozione che sollecita il corpo alla vigilanza e all’attenzione, il bambino rivolge e concentra tutta la sua attenzione e i pensieri al controllo dell’ambiente circostante, al cercare tutti i possibili pericoli e minacce. Il pensiero nutre l’ansia perché più che alla situazione che vive in quel momento, il pensiero immagina quello che potrebbe accadere.

È soprattutto l’ansia anticipatoria che fa sì che il bambino fissi il suo pensiero, sulle situazioni difficili che dovrà affrontare e non pensi ad altro, non prospetti minimamente la possibilità di avere delle risorse per superarle. 

In bambini molto piccoli  è assolutamente giustificata la mancanza di consapevolezza delle proprie risorse, e noi sappiamo che il MS può insorgere già dai 3 anni, per questo motivo i pensieri spaventosi, supportati dall’ansia anticipatoria, li convincono che si trovano davanti a situazioni insuperabili. In genere l’ansia provoca in tutti noi la voglia di scappare a gambe levate,  o di prendercela con qualcuno, in questi bambini l’ansia è talmente alta da superare la soglia di tolleranza e l’unica strategia che sperimentano è l’evitamento, evitano di parlare e in alcuni casi l’inibizione è anche fisica, si muovono poco e mantengono una postura rigida.

Le pongo le domande tipiche di genitori e insegnanti:

ma con il tempo passa?

una volta abituati alla classe e alla maestra non dovrebbero parlare?

Certo l’abituazione  e l’adattamento sono concetti che  valgono per quasi tutti i bambini all’ingresso della scuola d’infanzia o delle elementari, si attende un periodo di adattamento che può andare da qualche settimana fino ad un mese, alla fine di questo periodo in genere i bambini si assestano su una situazione di accettazione del cambiamento. Per il bambino che soffre di MS non è così, per lui la paura è contesto-dipendente, ma non va incontro ad adattamento e abituazione, pur essendo sottoposto alla stessa situazione tutti i giorni (classe, compagni, insegnanti), per lui è come se fosse il primo giorno di scuola tutti i giorni, con il suo carico di ansia, angoscia e pensieri e paura di quello che lo aspetterà.

Come per tutte le emozioni l’ansia e il suo sintomo più eclatante, il SILENZIO, non può essere controllata volontariamente, quindi vi esortiamo a NON DIRE AL BAMBINO:

TRANQUILLIZZATI

NON DEVI AVER PAURA

NON DEVI ESSERE IN ANSIA

ADESSO PUOI PARLARE

Sono sollecitazioni da evitare. La paura porta all’evitamento e questo è una grande trappola, un circolo vizioso, perché se l’evitamento fa diminuire l’ansia, il sollievo che ne consegue suggerisce al cervello che la situazione evitata è davvero pericolosa e che non si hanno le risorse necessarie per poterla affrontare. Bisogna spezzare questo circolo vizioso.

È evidente, che in questa situazione, forzare il bambino a parlare non è mai la soluzione giusta anzi peggiora la sintomatologia, inutile cercare di convincerli, non riflettono sulle loro reali capacità di far fronte alle situazioni.

Non incitateli davanti alla classe: provano livelli altissimi di vergogna. Non vogliono stare al centro dell’attenzione sia negativa (perché non parli? Dì qualcosa ai tuoi compagni), che positiva (bravo che bel disegno che hai fatto, lo facciamo vedere a tutti!).

Alcuni non vogliono cimentarsi nelle attività scolastiche perché sono convinti di non riuscire, di non saper fare, di sbagliare. Si sentono inadeguati e se una volta sbagliano, quell’errore rimane nella loro memoria, solo l’errore, mentre tutte le cose belle e giuste che vivono e fanno quotidianamente scompaiono.Ecco perché è importante non pressarli affinché parlino, come potrebbero farlo con tutta questa cascata emotiva che provano? Non rispondere alle sollecitazioni li espone inutilmente alla sensazione di fallimento confermando quello che già pensano di sé stessi: sono incapace.

Penso che ormai sia chiaro che le pressioni e le aspettative aumentino l’ansia del bambino, ma ribadiamolo ancora Dottoressa, sono in contatto con molti genitori e insegnanti e da entrambe le parti ci sono ancora degli “scettici”.

E allora spiegamolo ancora che obbligare il bambino a parlare o aspettarsi che lo faccia in determinate situazioni, rinforza l’ansia. Pensare che il suo silenzio sia intenzionale colpevolizza il bambino, è come dirgli: ci riesci benissimo solo che non vuoi parlare, quindi è colpa tua”, questo non solo aumenta il disagio ma ostacola la costruzione di un’ambiente sereno favorevole all’emergere della comunicazione verbale.

E allora Dottoressa Trivelli qual è l’ambiente favorevole?

L’ambiente favorevole è quello che non colpevolizza, è un ambiente emotivamente caldo in cui il bambino senta di essere compreso, nel quale sia possibile nelle condizioni giuste e nel momento giusto, fare delle richieste al bambino leggermente più alte rispetto alla situazione in cui si trova. Richieste semplici che chi segue il bambino sa che può tollerare e per le quali gli sono stati forniti gli strumenti utili per affrontarle e tollerarle, piccoli passi avanti che faranno comprendere al bambino che è in grado di fronteggiare anche situazioni che a lui sembravano spaventose. Questo aumenterà i livelli di autoefficacia e di autostima. Con il tempo, con il lavoro dello psicoterapeuta e dell’insegnante, il livello d’ansia diminuirà e solo così le “paroline” potranno riemergere.Permettiamo al bambino di ampliare gradualmente luoghi, contesti, situazioni sociali diverse.

Per concludere vorrei rispondere alla domanda che mi pongono spesso insegnanti e genitori: ma se io non forzo il bambino a parlare, se gli concedo il non verbale non è che poi si adagia in questa situazione e quindi non vorrà più parlare?

La mia risposta è NO!

Il Mutismo selettivo non è un disturbo oppositivo-provocatorio, né vuol dire essere asociali, anzi al contrario sono  bambini per i quali la relazione con gli altri è importantissima.

BISOGNA LAVORARE SULL’ANSIA!

  • Lavorare sull’ansia (e non sul farli parlare ad ogni costo), permette di vivere l’estrema sensibilità di questi bambini non come una fragilità ma come una risorsa, che può essere utilizzata in molti ambiti e con tantissime modalità differenti. E gli permette anche di accettarsi, di imparare che come tutti hanno delle caratteristiche positive e negative, che possono sbagliare e hanno dei punti di debolezza ma anche tanti punti di forza. L’importante è saperli riconoscere e utilizzare nel modo adeguato.
  • Lavorare sull’ansia vuol dire passare da un senso di vulnerabilità estrema ad un graduale incremento dell’autostima, cambiare la visione del mondo che da qualcosa di minaccioso deve invece essere un luogo in cui vivere serenamente, avendo fiducia nelle proprie capacità di affrontarlo, insieme agli altri con cui relazionarsi.
  • Lavorare sull’ansia vuol dire abbandonare pian piano l’eccessivo sostegno e l’iperprotezione, vuol dire  lasciare posto all’esplorazione e alla scoperta e questo vale sia per i bambini che per gli adolescenti.

Quindi per concludere,  lavorare sull’ansia e non concentrarsi sul parlare non fa adagiare il bambino, non lo fa abituare al silenzio, al contrario lo aiuta a crescere.

 

 

 

 

 Dottoressa Trivelli
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Test cognitivi e test proiettivi. Come, quando e perché vengono utilizzati? Ne parliamo con la Dottoressa Tagliabue

Test cognitivi e test proiettivi.

Spesso si ha una visione semplicistica dei test, pensiamo che sia tutto limitato alla risposta giusta o sbagliata. Come, quando e perché vengono utilizzati? Ne parliamo con la Dottoressa Tagliabue

 I test, così come il colloquio, l’intervista, l’osservazione e il questionario sono uno degli strumenti che lo psicologo ha a disposizione nel suo lavoro per diversi scopi, per esempio decodificare la richiesta di un soggetto o per contestualizzare il disagio o il sintomo di un paziente.

Dottoressa Tagliabue, spesso si ha una visione semplicistica dei test, pensiamo che sia tutto limitato alla risposta giusta o sbagliata. Lei può spiegarci come vengono utilizzati i test nella realtà?

Nessun test e nessuna batteria di test di per sé può dare da solo un quadro del soggetto, è lo psicologo che elabora e interpreta i dati che sono emersi dai test e li organizza all’interno di un quadro significativo, all’interno della relazione terapeutica e di diversi colloqui. La scelta di utilizzarli deriva da diversi criteri, spesso il motivo per cui si introducono è quello di fare chiarezza in un tempo breve, proprio perché con i test si possono ottenere molti elementi e informazioni  in più che permetteranno di  avere un quadro diagnostico più completo.

A me piace molto utilizzare questa metafora: il test è come una sorta di fotografia istantanea della persona scattata in un preciso momento, in una specifica situazione di vita. Continuando con la metafora, guardando la fotografia e osservandone i dettagli, lo psicologo può avere una visione globale di tutti gli elementi che sono in gioco. I test quindi costituiscono, a mio avviso, un valore aggiunto alla terapia, la possibilità di poter fare “un’istantanea” di ogni tappa del percorso e poter confrontare ad esempio la prima con l’ultima fatta alla fine della terapia.  Per essere utilizzati in campo psicologico, i test devono avere una validità scientifica e statistica solo con queste garanzie si può affermare che i dati che emergono sono attendibili e reali.

La scelta del tipo di test da utilizzare dipende da tante variabili, prima di tutto dal fine, dall’obiettivo, dal disturbo in atto, dall’età del paziente e dall’orientamento teorico dello psicologo. Esiste una vasta gamma di test, in questo articolo prenderò in considerazione le macrocategorie più utilizzate.

Qual è lo scopo dei test?

Soprattutto indagare su vari aspetti della personalità. Ci sono, ad esempio, test cognitivi che ci danno un quadro delle risorse cognitive della persona e i test proiettivi che vanno invece ad indagare gli aspetti emotivo-relazionali. Ci sono anche le cosiddette “prove standardizzate” che vengono utilizzate per approfondire la diagnosi di un particolare tipo di problematica e che comprendono i test per appurare la presenza di una difficoltà di apprendimento, oppure difficoltà visuo-spaziali, o vanno a verificare altre capacità del soggetto.

Dottoressa Tagliabue può parlarci più in dettaglio dei TEST COGNITIVI?

I test cognitivi riguardano l’intelligenza e varie abilità cognitive, ne esistono di diversi tipi sono test detti di Livello perché alle prestazioni e ai compiti che vengono affidati al soggetto viene attribuito un punteggio, il risultato viene confrontato con un campione di riferimento di pari età e da questo si può rilevare se la prestazione del soggetto è nella media, inferiore o superiore.

I test cognitivi possono essere anche suddivisi in test verbali (domande e risposte verbali) e test non verbali, cioè quelli in cui il soggetto può rispondere scrivendo o indicando la risposta.

Tutti i test di livello vanno a verificare l’intelligenza, sappiamo che il costrutto dell’intelligenza non è unico ma è multifattoriale quindi per valutarla si utilizza una batteria di test.  Le più famose sono le Scale  Weschsler , suddivise in Scala Wais per gli adulti (dai 18 anni in su), la Scala Wisc per l’età scolare (dai 6 fino ai 16-17anni), e la scala Wippsi  per l’età prescolare. Sono tutti test che valutano il famoso Q.I. (quoziente intellettivo). Altri tipi di test d’intelligenza sono le matrici di Raven, che a seconda dell’età si suddividono in matrici progressive colorate e standard. Altri strumenti per indagare l’intelligenza sono: TINV (Test di Intelligenza Non Verbale), la  Vineland Adaptive Behavior Scales e il test Leiter-R.

 

Dottoressa passiamo ora ai test proiettivi

I test proiettivi indagano gli aspetti emotivo-relazionali della persona, non sono test di livello e i risultati non vengono confrontati con un campione di riferimento, ma sono tecniche che consentono di avere una visione d’insieme della personalità e le varie tappe dello sviluppo dal punto di vista della psicologia proiettiva.

In pratica come si distinguono dai cognitivi?

Alla persona sottoposta al test vengono presentati stimoli poco strutturali o ambigui, il soggetto attribuisce a questi stimoli un significato che sarà poi utilizzato per rivelare parti della sua personalità, gli aspetti emotivi, emozionali e affettivi. Per citarne qualcuno: i classici test di Rorschach,

Hermann Rorschach

Black Pictures, il T.A.T (Thematic Apperception Test).

Ma anche test più semplici effettuati con metodi espressivi come quelli “carta-matita” nei quali viene chiesto di disegnare, ad esempio il test della figura umana, il test del disegno dell’Albero o il test Wartegg.

In conclusione, di questa brevissima panoramica sui test vorrei ricordare i test specifici cioè quelli che rilevano capacità particolari della persona, per fare qualche esempio, se facciamo riferimento ai bambini si usano le prove standardizzate per verificare la capacità d’apprendimento, la lettura-scrittura-calcolo, la concentrazione e l’attenzione.

Infine, Dottoressa Tagliabue ci dica gli aspetti fondamentali della valutazione testistica.

Credo che gli aspetti fondamentali siano due:

IL CRITERIO DI SCELTA DEL TEST

Il test viene scelto per un perseguire un obiettivo e un fine specifici.

LA RESTITUZIONE

Dopo tutto il lavoro fatto, i test, l’analisi dei risultati, i colloqui, e gli incontri arriva il momento in cui questo grande bagaglio d’informazioni deve essere elaborato e discusso con il paziente e da qui arriva la restituzione. Quel momento può essere vissuto non come un arrivo, ma una vera nuova partenza data dalla scoperta di nuove informazioni su di sé ed eventualmente dalla possibilità di intraprendere un nuovo percorso, sicuramente più profondo ed efficace.

Tutte le immagini sono prese dal web

 

 

 

Dottoressa Daniela Tagliabue

 

 

 

 

Daniela Tagliabue cel 340-7712729

[email protected]

Centro   Multidisciplinaire Koru Lab Via Santo Stefano 10 [email protected]

sede di Milano via Zurigo 28 – piazza Wagner 2

L’Arteterapia (in seguito AT): un modo per ritrovare la nostra manualità …e noi stessi. Corsi di Arteterapia per adulti, ne parliamo con il Dottor Matteo Corbetta

L’Arteterapia (in seguito AT): un modo per ritrovare la nostra manualità …e noi stessi. Corsi di Arteterapia per adulti, ne parliamo con il Dottor Matteo Corbetta

 


Dottor Corbetta in un precedente articolo

https://ilblogdiadri.altervista.org/2018/01/larteterapia-ovvero-disegno-non-peculiarita-dei-bambini-riappropriamoci-della-nostra-creativita/

 lei ci ha spiegato che l’arteterapia si può “praticare” a qualsiasi età, può parlarci della sua esperienza di AT con adulti? 

È vero non c’è alcun limite di età per iscriversi ad un corso di AT, lavoro frequentemente con bambini e ragazzi ma ho curato anche corsi per gruppi di adulti.

Quali sono le motivazioni che spingono un adulto a voler fare della AT?

In genere i corsi hanno due tipi di indirizzi proprio conseguentemente alle esigenze di chi si s’iscrive: il corso finalizzato al benessere, e il corso indirizzato a equipe di lavoro.

Per quanto riguarda il primo, sono persone animate dal desiderio di approfondire la “conoscenza di sé” tramite modalità di espressione non verbali. Nel mio caso tutto è partito dai genitori dei bambini con i quali lavoro nelle scuole, sono stati loro a dirmi “fai attività con i nostri bambini e non puoi farla anche con noi?”  e così grazie a loro ho iniziato i corsi serali per adulti.

Come si svolge un setting per gli adulti, cosa propone, cosa si fa in pratica?

Nel setting per gli adulti la modalità di lavoro è differente da quella che utilizzo in studio. In tutte le sedute i partecipanti hanno la possibilità di scegliere tra i materiali proposti per creare immagini, dopo aver ricevuto uno stimolo verbale.

Spesso prima della ricerca del materiale creo un momento di rilassamento, con una musica di sottofondo, durante il quale insegno ad ascoltare il respiro, e invito a fare spazio solo a quanto sta avvenendo nella stanza, affinché questi incontri siano efficaci è veramente necessario lasciare fuori lo stress e i problemi quotidiani. Dopo questo momento i partecipanti posso scegliere tra materiali convenzionali: matite, matite colorate, pennarelli, pastelli ad olio, gessetti, acquerelli, tempere, chine; ma anche materiali non convenzionali e di riciclo: pezzetti di stoffa, lana, bottoni, cannucce e tutto quello che trovano e stimola la loro fantasia. Una volta scelto il materiale la creazione dell’opera può scaturire dagli stimoli più svariati.

In alcuni gruppi ho proposto di creare un’immagine che li rappresentasse attraverso la scelta del materiale a disposizione “scegliete il materiale o i materiali che più vi rappresentano”, in altre situazioni siamo partiti dalla scelta di immagini predefinite o fotografie, in altre ancora da una stimolazione olfattiva con profumi ed alimenti. Sono molteplici le modalità con le quali si comincia, io credo che l’inizio debba essere soft e che molto dipenda anche dai partecipanti, se si conoscono o meno, se costituiscono subito un gruppo oppure hanno difficoltà o hanno bisogno di più tempo per lavorare insieme. Sono molto contento quando nel gruppo ci sono delle contaminazioni, anzi le ritengo fondamentali, perché circolano immagini ed energie che spesso sono condivise quasi in modo inconscio.

Dottor Corbetta in che modo lei “guida” il gruppo, perché in qualche modo anche lei deve intervenire immagino.

Sì, guido nel senso che sono il “conduttore!

Nel percorso mi inserisco con molta discrezione per apportare modifiche, spesso in modo non verbale o attraverso il linguaggio metaforico (utilizzo del materiale ecc.) o parole di supporto e accoglienza dei movimenti e dei gesti di un singolo, e poi lascio loro il tempo che occorre per diventare “gruppo”. Dopo un periodo di creazione dell’immagine si procede alla verbalizzazione

La verbalizzazione, processo successivo alla creazione dell’immagine. Può spiegarci meglio?

Nella mia esperienza, la verbalizzazione condivisa rende l’immagine ancora più viva e diventa patrimonio/storia ed espressione per l’intero gruppo. Si mescolano emozioni di gioia, di preoccupazione, a volte di sconforto fino a singhiozzii e pianti che diventano il modo di esternare ciò che la creazione dell’immagine nel processo creativo, ha portato alla superficie. Nel corso delle sedute, che solitamente non sono mai meno di 8/10 ,si sussegue lavoro individuali o di gruppo a seconda delle esigenze; si utilizzano materiali differenti si disegna, si crea e si sperimenta. Per il mio modus operandi sono solito lasciare la piena libertà, ricordo in alcuni casi di essere arrivato a procurare pezzi di legno, viti, chiodi, martello e trapano per un padre che voleva rappresentarsi utilizzando gli strumenti del proprio lavoro. Nei gruppi sono nate storie affascinanti che hanno permesso ai singoli di vedersi e rivedersi dandosi un tempo e uno spazio per il racconto dei propri vissuti e delle emozioni. Spesso mi è capitato di vedere adulti inizialmente rigidi ed impacciati lasciarsi andare e a fine percorso sentirmi dire da uomini con professioni molto “razionali”, che non si credevano capaci di “esprimere le proprie emozioni” in quel modo. Qualcuno mi ha detto di aver partecipato con qualche resistenza e di essersi poi trovato “incantato” da quello suscitava in lui tutta quella creatività..

Con il passare delle sedute a volte si propongono dei temi, io cerco di farlo senza mai imporli anche attraverso immagini che possano servire da stimolo, talvolta canzoni, brevi scene di film, racconti ecc. Altre volte lascio che siano i componenti del gruppo a creare e a proporre, ogni gruppo è diverso dall’altro, ogni percorso è specifico e dipende da numerosi fattori, io considero spesso il conduttore, cioè me stesso, come la persona capace “di sentire con la pancia ed usare la testa”.

Bellissima definizione!

Colgo lo stato del gruppo con la pancia, sono nel gruppo, lavoro nel gruppo poi però rientro nel mio ruolo e utilizzo la testa nella scelta del percorso da seguire.

Accade quindi che progetti iniziali e ipotesi di lavoro vengano spesso modificate rispetto all’idea di partenza, a volte si parte da un titolo o da una parola che poi sommata a quelle degli altri diventa una storia o un racconto collettivo. Credo che oggi ci sia una grande bisogno di parola, gli adulti hanno l’esigenza di comprendere quello che accade nella seduta, la verbalizzazione oltre ad essere la possibilità di espressione di ognuno diventa l’occasione per dare concretezza al percorso prima della chiusura della terapia di gruppo, o alla seduta di quel giorno.

In altri casi ho svolto laboratori di AT con professionisti in equipe di lavoro con l’obiettivo di far emergere, in un modo differente da quello indagato verbalmente, le dinamiche di gruppo nel team di lavoro. In questo caso il mio intervento ha promosso interazioni rimuovendo rigidità e pregiudizi presenti nella realtà lavorativa, nel setting si ammorbidivano o venivano alla luce.

Per quanto differenti le motivazioni per cui si inizia un percorso di AT, mi sembra che l’elemento comune sia il bisogno di far uscire le emozioni.

Sì, in entrambi i casi posso dire che si è poco abituati a lavorate sul sé, soprattutto nel mondo odierno dove diventa difficile ritagliarsi uno spazio per il proprio benessere interiore. Nel lavoro con gli adulti spesso sono venuti alla luce vissuti d’infanzia, ricordi di viaggi, di innamoramenti, di successi e fallimenti che hanno ricevuto una forma diversa e sono stati metabolizzati dopo aver lavorato con un linguaggio non verbale. In tal senso le immagini sono state determinanti, forti e coraggiose in quanto portatrici di significati nascosti.

Grazie Dottor Corbetta come sempre lei riesce  ad emozionarci e a trasmettere la sua passione per questo lavoro  in chi la legge, e in questo caso anche la curiosità e la voglia di intraprendere un percorso di AT. Abbiamo tutti bisogno di “fare” qualcosa che non sia giudicato, valutato, criticato, fare qualcosa che non sia necessariamente utile nel senso economico della parola, usare le mani … ne abbiamo perso l’abitudine, passiamo dalla mano  che tiene il cellulare  alle dita che si muovono sul pc. Deve essere emozionante ritrovare la propria manualità, con l’arteterapia si può. E anche ritrovare sé stessi.

Tutte le immagini sono di  © Matteo Corbetta

 

 

 

Se qualcuno dei nostri lettori (genitori, ragazzi, adulti) volesse contattare il Dottor Matteo Corbetta può scrivergli direttamente alla mail

[email protected]

3393506327

oppure al Centro di Cesano Maderno dove collabora con la Dottoressa Claudia Gorla Psicoterapeuta

Centro Koru Lab

Via Santo Stefano 10

Cesano Maderno

http://www.studiosmail.it/sede-di-cesano-maderno/

Un bambino vive un momento di difficoltà, il genitore chiede aiuto… cosa avviene da quel momento in poi? Ne parliamo con la Dottoressa De Ponte

Dottoressa De Ponte nel corso dell’intervista che potremmo definire di presentazione  (la trovate qui nel blog), lei ha affermato che si occupa anche di Psicoterapia dell’età evolutiva e quindi di sostegno psicologico per i bambini. Cosa succede quando un genitore si accorge che il proprio bambino sta vivendo un momento di difficoltà, di disagio?

Iniziamo da: lei riceve una telefonata da un genitore 

Esatto, tutto inizia con una telefonata durante la quale uno dei genitori mi spiega la situazione, poi si fissa  il primo appuntamento.

In genere richiedo la presenza di entrambi i genitori (a meno che non ci siano degli impedimenti), poi in seguito decido se vedere o meno il bambino anche in rapporto alla sua età. Il percorso terapeutico prevede degli incontri alternati   bambino-genitori, di solito dopo tre incontri col bambino uno avviene con i genitori, ma non c’è mai nulla di fisso, tutto è dinamico e dipende dal percorso, dalla disponibilità dei genitori e dalla problematica.  La seduta dura circa   50 minuti con una frequenza che varia caso per caso.

So che non è facile decidere di “di andare dallo psicologo”, in virtù della sua esperienza cosa spinge un genitore a chiedere finalmente aiuto?

Il bambino viene in terapia dopo un fatto eclatante, in seguito ad episodio molto forte, come lei ha detto nella premessa, i genitori non sempre si attivano in tempi veloci per verificarne la causa.  Fra i motivi da lei enunciati aggiungerei che spesso si pensa che portare il bambino dallo psicologo sia automaticamente indice di una “carenza” come genitore. Una sorta di: se il bambino ha qualcosa che non va è sicuramente “colpa” mia, sono un cattivo padre o una cattiva madre.  Da qui nasce la resistenza del genitore a chiedere aiuto. Generalmente in questi casi, rimando ai genitori un messaggio di incoraggiamento, so bene che fanno del loro meglio, e sicuramente il loro bambino è amato e  le difficoltà che sta vivendo sono  probabilmente momentanee.

Quindi a volte le arrivano bambini con situazioni anche gravi perché immagino che il fattore “tempo” sia importantissimo, forse possiamo approfittarne per lanciare una specie di appello: procrastinare, rimandare non aiuta a far superare i problemi, al contrario aggrava le situazioni e rischia di cronicizzarle. C’è anche la possibilità che sia un disagio passeggero, un momento di difficoltà ma anche che sia un problema più complesso che va considerato seriamente.

Lo so che è una domanda “impossibile” ma molti mi chiedono “quanto dura il percorso terapeutico?”, immagino che sia impossibile rispondere.

Infatti non è definibile a priori, ogni bambino è una caso a sé, ha una sua storia e volta per volta insieme anche ai genitori valutiamo la situazione e gli obiettivi terapeutici.

Ora entriamo nel suo studio, come interagisce col bambino?

Lo strumento principale d’intervento è il Colloquio in base anche al mio orientamento terapeutico, ma soprattutto il gioco! Non potrebbe essere altrimenti trattandosi di bambini. Il percorso terapeutico è finalizzato al conseguimento della realizzazione di sé stessi e delle proprie capacità e potenzialità, all’aumento della conoscenza di sé, all’accettazione dei propri limiti, sia da parte del bambino che da parte dei genitori, e alla riduzione della sofferenza psicologica.

Quindi per costruire la relazione con il bambino utilizzo i giochi di ruolo, le fantasie guidate, le storie, la musica, l’argilla, il disegno, la lettura, i peluche, i burattini, il colore.

Nella mia vita privata faccio anche teatro e quindi porto nello studio questa esperienza lavorando sulla drammatizzazione delle fiabe, le metto in scena insieme ai bambini; è una pratica che li aiuta tantissimo ad aumentare la crescita e lo sviluppo della coscienza[1].

Ma la tecnica e la procedura non sono fine a sé stesse, la tecnica e il metodo sono catalizzatori perché ogni seduta è imprevedibile tutto dipende da me, dal bambino, dalla situazione; il processo creativo che ne deriva è aperto a 360 gradi, perché è questo il mio compito: aprire sia le porte che le finestre del loro mondo interiore.  È necessario offrire al bambino tutti i mezzi che gli permettano di poter esprimere le proprie emozioni e di tirar fuori ciò che è nascosto e che spesso fa soffrire. Si può lavorare insieme su questo materiale che emerge. Il mio intervento permette di aiutare ad aprire le porte della autoconoscenza e della padronanza di sé, con dolcezza e delicatezza.

Quando entro in relazione con un bambino attivo il mio bambino interiore, detto in termini di Analisi Transazionale, cioè attivo una parte di me, di Bambino Libero che va verso la creatività, verso la spontaneità tipica dei bambini e poi attivo anche una parte Genitoriale.

Concluderei con un pensiero fondamentale: il presupposto di base per lavorare con i bambini è non solo attivare questa parte libera di sé (il Bambino Libero di cui dicevo), ma è fondamentale AMARLI, stabilire con loro un rapporto di accettazione e di fiducia, seguirli nella crescita e nel loro apprendimento. Il bambino deve sentirsi accettato per quello che è, solo amandolo e accettandolo è possibile aiutarlo. L’amore cura.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Come metodo mi ispiro a quella di Viole Oaklander una terapeuta Gestalt che ha scritto” Il gioco che guarisce”

La dottoressa Anellina De Ponte riceve a:

  • Via Nazionale delle Puglie 51

Cimitile (NA)

Tel. 3288493076

Il viaggio

 Il Viaggio

Paola Cipriano

Se oggi potessi esaudire un desiderio sarei lì in alto. Perché l’andare pone fine all’inquietudine.
Non le radici, ma le gambe. I piedi, la possibilità di muoversi.
E al varco dei nuovi luoghi, dei paesi che prima erano lontani, far pace con l’estraneità di ciò che non sei più.
Per stare in equilibrio ho bisogno di questo allenamento costante.
Come disse qualcuno, viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere stranieri fra stranieri. Che forse è l’unico modo di essere veramente fratelli.
Io viaggio per viaggiare, viaggio per ritrovare -ogni volta- il senso di appartenenza a questo tutto. L’ incastro perfetto.
Viaggio per la beatitudine che mi regala l’incontro con l’altrove.

 

Intervista alla Dottoressa Anellina De Ponte Psicologa Clinica e Psicoterapeuta ad orientamento Gestaltico e Analitico Transazionale.

Una nuova intervista e una nuova collaborazione.

Grazie a queste conversazioni, e i relativi articoli che ne derivano abbiamo la possibilità di informarci sui vari approcci terapeutici, credo che conoscere un po’ più da vicino le persone alle affidiamo il nostro essere profondo sia anche rassicurante e  utile.

Questa volta ho posto qualche domanda alla Dottoressa Anellina De Ponte Psicologa Clinica e Psicoterapeuta ad orientamento Gestaltico e Analitico Transazionale.

Dottoressa De Ponte cosa vuol dire “orientamento Gestaltico e Analitico professionale” 

Fu uno psicanalista tedesco, Fritz Perls, a dare il nome di Gestalt a questo nuovo orientamento psicoterapeutico, la parola deriva dal verbo tedesco gestalten = “dare forma, dare una struttura significativa”.

La Terapia della Gestalt è un approccio umanistico alla psicoterapia che si accosta in maniera olistica all’esperienza umana stimolando nell’individuo la responsabilità e la consapevolezza dei bisogni psichici e fisici attuali, del qui ed ora.

La Psicoterapia della Gestalt  è un approccio terapeutico centrato sulla presenza, sulla possibilità cioè di rendere consapevole il fluire dell’esperienza, il nostro essere-nel-mondo, non è solo un approccio rivolto  alla cura del malessere psicologico. I principi sui quali si fonda  hanno un valore che non decadono con il cambiare del tempo.

L’incontro in psicoterapia della Gestalt è la base della cura. La   relazione di cura è strutturata su due polarità, da una parte l’osservatore (il terapeuta) dall’altro l’osservato (il paziente), il primo esercita il suo potere di  cura attraverso la sua conoscenza, il secondo si affida.

Dottoressa ci spieghi qual è la particolarità del terapeuta gestaltico.

Il terapeuta gestaltico:

  • guida il paziente affinché lui stesso si riappropri dei propri potenziali.
  •  dà sostegno alla responsabilità individuale e alla consapevolezza, fattori fondamentali di cambiamento e di crescita
  • mette sullo sfondo le sue conoscenze teoriche ed in figura la relazione con l’altro. Porta sé nella relazione, il suo modo di stare al mondo, entra pienamente nella relazione con il paziente con il proprio vissuto.
  • si pone come persona reale, invitando il paziente a fare lo stesso, creando l’attitudine dello stare nella relazione per quello che si è.
  • guida il paziente affinché lui stesso si riappropri dei propri potenziali.
  • mette sullo sfondo le sue conoscenze teoriche ed in figura la relazione con l’altro. Porta sé nella relazione, il suo modo di stare al mondo, entra pienamente nella relazione con il paziente con il proprio vissuto.

Potrebbe definirci, sempre brevemente, l’Analisi Transazionale (in seguito AT)?

L’Analisi Transazionale è una teoria della personalità e una psicoterapia sistematica finalizzata alla crescita e al cambiamento della persona. L’AT  trae origine da Eric Berne (1910-1970) uno psichiatra americano, è  in primo luogo una filosofia, una concezione dell’uomo che si inscrive all’interno della vasta corrente della psicologia umanistica. Gli assunti filosofici riguardo all’uomo, alla vita e agli obiettivi del cambiamento tipiche dell’A.T. sono:  “Io sono OK”, “Tu sei OK”.

“Ogni persona ha valore, importanza e dignità e la capacità di pensare e scegliere”, ognuno decide il proprio destino e queste decisioni possono cambiare nel corso del tempo”. L’opera di Berne era orientata verso un solo obiettivo « guarire il paziente il più velocemente possibile”, e per riuscirci costruì una teoria dalle parole molto semplice per facilitare la relazione terapeuta -paziente e permettere a quest’ultimo di gestire lo strumento terapeutico e di essere quindi parte attiva della sua guarigione.

L’ AT  mette in rilievo una griglia di lettura delle nostre « transazioni »,cioè dei nostri scambi con il mondo circostante e permette di migliorare le nostre relazioni con un lavoro che si basa essenzialmente sulla parola e sulle emozioni.

L’approccio da me utilizzato è frutto di un modello della scuola di specializzazione in psicoterapia della Gestalt  e  dell’AT, IGAT, che integra i due approcci che abbiamo brevemente spiegato, detto “Modello Gates” che comprende anche la psicologia degli Enneagrammi e la  spiritualità. Queste diverse esperienze terapeutiche, che  si intersecano e  arricchiscono reciprocamente, permettono di intervenire con varie tecniche sulle svariate problematiche o patologie. Infatti  l’integrazione di Gestalt e Analisi Transazionale permette uno spettro ampio d’intervento e dà la possibilità di agire efficacemente su due livelli cioè sul processo e sul contenuto, sul “qui e ora” con particolare  attenzione al comportamento visibile, osservabile che c’è in quel momento nel paziente e sul suo passato. 

Dottoressa non le faccio ulteriori domande su questi orientamenti terapeutici perché sono convinta che nel corso delle nostre future interviste ci torneremo spesso. Ma vorrei fare a lei la domanda che ho posto a molte sue colleghe e che secondo me interessa molto i lettori e probabilmente anche gli studenti che stanno pensando di intraprendere il lungo percorso di studi che li porterà a diventare psicoterapeuti.

Mi dica perché ha scelto di fare questo lavoro, cosa l’ha spinta ad un momento della sua vita a scegliere questa precisa direzione?

Ho scelto di fare questa professione e la esercito con molta passione e cura  perché credo che il vissuto di ogni essere umano meriti grande cura e profonda attenzione, il paziente  è una persona in grado di svilupparsi e di crescere  e di essere sano.

Se ci penso credo che la passione per questo lavoro sia nata molto presto, prima ancora di conoscere il significato della parola “psicologia” e di sapere la differenza tra psicologia e psicoterapia. Durante la mia infanzia  e la mia adolescenza ho vissuto esperienze emotivamente forti e spaventose che mi hanno resa molto fragile, non riuscivo a comprendere il mio stato d’animo, le mie reazioni a questi eventi, mi ponevo tante domande, ma ero piccola la mia mente ancora non aveva la capacità di dare le risposte.

Questa è l’immagine e il ricordo che ho di me:  una bambina con una attiva vita interiore che si poneva mille domande, tanti quesiti, solo verso i 15 anni, quando ho cominciato a strutturare un pensiero cognitivo  un po’ più concreto, ho capito che la psicologia e la psicoterapia potevano aiutarmi a dare una risposta alle mie domande. Sentivo che volevo costruire un puzzle, il puzzle della mia vita, ma non ci riuscivo perché mi mancavano i pezzi e anche gli strumenti per metterli insieme.

Tornando a me bambina, ricordo che  mi piaceva stare tra la gente, mi piacevano le persone sensibili, ed ero attratta dalle persone che “sentivano” le  emozioni come me, mi piaceva ascoltare. Chissà forse l’attitudine c’era già!

Posso quindi dire che ho avuto una duplice motivazione a intraprendere questa strada: il voler “guarire” le ferite interne della bambina che sono stata, il voler guardare il mio mondo interno, e l’altra motivazione il voler “guarire”  quelle  degli altri  dei miei pazienti spinta dal  desiderio di guardare (con molto rispetto) il mondo  interno dell’altro e anche con molta fiducia. La fiducia è un concetto fondamentale del mio modello, fiducia nella guarigione, perché se ci sono riuscita io a superare i mie problemi, a sanare “le mie ferite” ci può riuscire anche il mio paziente. Oggi posso dire con certezza  che il grande lavoro che faccio anche su di me con la psicoterapia, e quello che faccio con i miei pazienti, mi aiuta a mettere insieme i vari pezzi di quel famoso puzzle di cui parlavamo prima: il puzzle della mia vita.

Per concludere la risposta alla sua domanda le racconto questo aneddoto: qualche anno fa ho incontrato  un’amica del liceo che non vedevo da tanti anni perché viveva all’estero, durante una rimpatriata venendo a conoscenza del mio lavoro, mi disse “Anellina ma tu sei sempre stata una psicoterapeuta”.Questa frase mi ha colpito tantissimo perché  non ero consapevole della percezione che gli altri avevano di me dai primi anni del liceo, cioè quella che “prestava soccorso, ascoltava gli altri, era comprensiva” come mi ha detto lei stessa.. Evidentemente dentro di me, chissà da quando, nella parte più profonda avevo già deciso cosa avrei fatto “da grande”.

Dottoressa credo che lei abbia perfettamente descritto quella che potremmo definire quasi una vocazione per il suo lavoro, rimasta latente per qualche tempo ma che poi è riuscita ad emergere ben presto.

Oggi lei lavora in tantissimi ambiti che svilupperemo nei prossimi articoli viaggeremo attraverso la sua esperienza entrando nel dettaglio della sua esperienza.

Lei lavora sia con i bambini che con gli adulti vero?

Sì certo mi occupo di psicoterapia dell’età evolutiva ,di disturbi d’ansia, panico, depressione, di mutismo selettivo, conduco gruppi di sostegno alla genitorialità, gruppi di crescita personale, gruppi di rilassamento (training autogeno, meditazione, fantasie guidate ecc.).

Ho sempre lavorato con i bambini, mi è sempre piaciuto moltissimo come animatrice, come educatrice e responsabile di Comunità di minori e oggi come Psicoterapeuta poter aiutarli fin da piccoli e a trovare il loro benessere interiore, soprattutto quando sono bambini con storie familiari molto pesanti, come ne ho incontrati nelle Comunità.

Altro ambito a cui tengo tantissimo è la mia collaborazione con la Scuola di Specializzazione IGAT,  mi occupo di  supervisione, tutoraggio, assistenza alla didattica  agli allievi che si stanno specializzando e collaboro alla ricerca in ambito clinico. Ho presentato dei lavori miei in Convegni Nazionali.

Per concludere Dottoressa De Ponte come definirebbe lo Studio in cui riceve i suoi pazienti?

Il mio studio è uno spazio ed un tempo per poter riscoprire le risorse e le potenzialità dell’individuo e anche per entrare in contatto con le proprie criticità al fine di poter elaborare con consapevolezza e consapevolmente all’interno di una relazione d’aiuto (terapeuta-paziente), che è una relazione autentica volta alla valorizzazione della dignità e la centralità della persona, perché la persona è autrice del proprio cambiamento. Io, come psicoterapeuta non do consigli, ma stimolo e faccio riflettere il paziente affinché possa trovare delle soluzioni nuove a dei vecchi problemi e affichè possa scoprire chi realmente è.

Grazie Dottoressa a presto allora per i prossimi articoli

 

 

 

La dottoressa Anellina De Ponte riceve a:

  • Via Nazionale delle Puglie 51

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Tel. 3288493076

“Capiamo il bambino, i capricci a tavola” ne parliamo con la Dottoressa Paola Cipriano

“Capiamo il bambino, i capricci a tavola”

ne parliamo con la Dottoressa Paola Cipriano

In questo articolo cercheremo di approfondire due tematiche sempre attuali : il rapporto tra bambini e cibo e i capricci a tavola .

Nelle conversazioni tra genitori le frasi che ricorrono spesso sono “mio figlio non mangia nulla, non so più cosa far; fa i capricci; serra la bocca pur di non mandar giù il boccone; per farlo mangiare non so cosa inventarmi”, associate ovviamente ad uno stato d’ansia e preoccupazione (del genitore, non del bambino).

Dottoressa Cipriano, questo rifiuto di mangiare secondo lei è veramente solo e semplicemente un capriccio?

No, assolutamente no.

Ma prima di entrare nel dettaglio vorrei sottolineare che in Italia l’obesità infantile è in forte incremento, i bambini mangiano troppo e male, accanto a questo bisogna considerare anche un fattore “culturale” che porta a considerare il mangiare più del necessario una qualità positiva, di conseguenza si crede ancora oggi che il bambino che mangia tanto è sano, più è “rotondo” più sta bene. Tutto questo viene considerato valido fino alla prima infanzia perché poi successivamente nell’adolescenza il modello di riferimento cambia e lascia il posto al “più sei magro e perfetto”, più sarai accettato. Eppure, malgrado questi dati allarmanti, a meno che non sia il pediatra a segnalare il problema, i genitori non considerano il sovrappeso del bambino   un vero problema, al contrario si preoccupano e  si concentrano sul “mangia poco”.

Nella mia esperienza sia di psicoterapeuta nelle sedute individuali e/o nei gruppi post parto, sia nella quotidianità di mamma, parlando con le madri alle prese con lo svezzamento mi sono resa conto che quello che crea più problemi sono le dinamiche che scattano durante i pasti: i bambini non mangiano o mangiano poco e soprattutto fanno i capricci.

Ha perfettamente ragione, spesso il pasto diventa un vero tormento ci si inventa di tutto, si inseguono i bambini in giro per la casa senza alcun risultato, si creano giochi nuovi, si leggono favole, vengono implorati, pregati, minacciati e poi alla fine di tutto questo teatrino mangiano la metà di quello che viene proposto.

Quando c’è un problema col cibo il problema non è mai il cibo, quando i bambini fanno i “capricci” dobbiamo stare molto attenti, dobbiamo pensare anche a cosa proponiamo, cosa gli diciamo, ai messaggi che veicoliamo, perché il bambino associa la nostra reazione al cibo e la mantiene per sempre:

Cibo = senso di colpa

  • Ma come non mangi? La mamma l’ha fatto con tanto amore.
  • Se non mangi la mamma è triste.

Al bambino arriva questo messaggio “io ti amo tanto e tu non mangiando mi rifiuti”, probabilmente mangia ma non per voglia, per non far soffrire la mamma.

Cibo= inganno

  • Per esempio, al bambino non piace il pesce, la mamma lo inserisce nelle polpette pensando che non se ne accorga.

Al bambino arriva il messaggio che l’inganno è lecito.

Cibo= punizione

  • Se non mangi non ti compro non ti porto al parco, ti tolgo il gioco preferito.

Il bambino probabilmente mangia ma assocerà il cibo alla punizione

Cibo= premio

  • Se mangi tutta la pasta dopo ti do il tuo dolce preferito.

Il bambino non dovrebbe mangiare su ricatto di un premio, una punizione o un senso di colpa, il bambino deve mangiare perché ne sente il bisogno.

Dottoressa quindi non serve assolutamente  a nulla tenere il bambino davanti al piatto “finché non mangia”, il che spesso quel finché può risultare un tempo interminabile. È un momento di grande stress per il bambino e per il genitore.

No, non serve a nulla, se non a far odiare quel cibo in particolare.

Noi genitori siamo responsabili della nutrizione del bambino che deve essere sana e varia, ma dobbiamo anche avere fiducia nelle sue capacità di autoregolarsi.  Il bambino deve “sentirsi”, deve percepire sé stesso, se noi decidiamo al suo posto, se ci sostituiamo alle sue esigenze (che sono solo sue) effettuiamo un’azione molto pericolosa, gli togliamo la capacità di imparare ad ascoltarsi. Questo è molto grave perché la capacità di auto ascoltarsi diventa per un bambino un vantaggio, una protezione di fronte ai pericoli.

I bambini ci fanno sempre domande di presenza associate al bere o al mangiare, la sera per esempio ci chiamano, chiedono l’acqua, gliela portiamo e poi magari ne bevono solo un sorso perché?

Dottoressa Cipriano cosa intende per domande di presenza?

Vuol dire qualcosa di più dell’attenzione.

Hanno bisogno di sentirci non solo fisicamente ma soprattutto mentalmente, hanno bisogno di sentire loro dentro di noi. Hanno bisogno di sentirsi sentiti.

Credo che sia capitato ad ogni genitore di vivere un momento di difficoltà a causa del quale siamo meno disponibili, passiamo meno tempo con loro  per una serie di motivi che fanno parte del quotidiano, stress da lavoro, problemi economici, problemi di salute, in questi momenti il bambino pur sentendosi comunque amato, ha la percezione dell’assenza del piacere di stare con lui, e allora può chiedere l’acqua, oppure fare i capricci al momento del pasto.

Qual è la relazione tra capricci e il cibo allora?

I bambini possono manifestare il disagio nel rapporto col cibo anche quando ci sono cambiamenti in atto: un trasloco, l’ingresso al nido, la mamma che riprende il lavoro, problemi di coppia, problemi di salute.

L’importante è interrogarsi sempre e capire che ogni volta che ci sono dei grandi cambiamenti nelle dinamiche riguardanti il cibo bisogna considerare come soggetti attivi sia i genitori sia il bambino che è parte integrante di questa dinamica, proporzionalmente alla sua età e alla sua crescita psichica.

Il rapporto col cibo ha diversi significati e cambia anche in base allo stadio evolutivo, per esempio inizia dall’allattamento momento in cui c’è una grande simbiosi con la madre, prosegue  con lo svezzamento momento in cui avviene la prima vera separazione e spesso le ansie e le difficoltà insorgono perché non sono solo i bambini a dover essere “svezzati” ma anche  le madri, perché devono abituarsi al passaggio da soggetti indispensabili a soggetti disponibili e utili. SI tratta di fare un passo indietro, tra la madre e il bambino comincia ad esserci qualcosa che li separa, che li distingue : un cucchiaino, il piatto. Il rapporto cambia e diventa diverso dal quel sentirsi un tutt’uno come nell’allattamento. La crescita e i cambiamenti non sono processi lineari e scontati, ci possono essere delle battute d’arresto, degli assestamenti, degli adattamenti,  non è solo questione di diversa consistenza del cibo in rapporto al latte, alcuni bambini con lo svezzamento possono avvertire maggiormente la  paura della separazione  e viverla come abbandono. DI solito non è vero che non mangiano in assoluto perché un bambino amato, protetto, accudito non si lascia morire fame, quello che vorrei far capire è che le mamme non devono proiettare  e codificare il mangiar poco, il serrare la bocca come un messaggio di non amore da parte del bambino, come fallimento personale ma piuttosto come richiesta di altro.

I capricci

Per noi adulti rappresentano un comportamento provocatorio, quasi una sfida che ci mette in difficoltà e che hanno lo scopo di crearci disagio.

Per me meglio sono qualcosa di ben più articolato, il bambino attraverso il capriccio ci sta dicendo qualcosa, il capriccio in sé è un atto comunicativo, lo fa con i suoi strumenti quelli che ha disposizione un bambino di 2-3-4 anni che a noi adulti risultano fastidiosi e reagiamo perdendo la pazienza o con le punizioni.

Tutto questo è molto umano io non voglio assolutamente proporre un modello ideale, capita prima o poi a tutti i genitori perché a nostra volta subiamo pressioni, siamo all’interno di un sistema che ci chiede ritmi che sono lontani dalla fisiologia e dai tempi normali di un bambino, torniamo a casa siamo stanchi, abbiamo poco tempo da dedicargli e  quel poco ci auspicheremmo di passarlo in armonia e non reagendo a dei capricci.

L’importante è esserne consapevoli, questo ci permette di aggiustare un po’ il tiro, la domanda che ci deve sempre guidare nel momento in cui vediamo che il bambino fa” capricci” a tavola è: che cosa mi sta comunicando, che messaggio mi sta lanciando?

Ricordatevi che il rapporto con il cibo ha a che fare con l’amore.

La prima esperienza relazionale che facciamo appena nati è all’interno di un’esperienza di nutrimento. Quando nasciamo innanzitutto viviamo quello che alcuni psicologi considerano il trauma della nascita, passiamo  da una situazione omeostatica dove tutto è stabile, i suoni sono attutiti, la percezione di fame non c’è perché abbiamo il cordone ombelicale, la temperatura è costante, ad una situazione, la nascita, in cui tutto questo viene meno.

Però l’istinto del bambino è geneticamente determinato per andare verso il seno materno, ci sono dei video bellissimi in cui si vede che se si posa il bambino appena nato sulla pancia materna , pian piano migra verso il seno e si attacca. Questo fenomeno di migrazione avviene non per fame ma per recuperare quel paradiso perduto, l’omeostasi, la simbiosi. Quando nasce non ha la consapevolezza di sé, la raggiunge in maniera graduale, nel corso di mesi attraverso un’alternanza tra separazione e simbiosi.

La simbiosi si ripropone durante l’allattamento,in quel momento la mamma e il neonato sono un tutt’uno e poi quando finisce la poppata ci si separa, da questa continua alternanza di contatto e separazione, nasce la mente da un punto di vista psichico e quindi la capacità di pensare su di sé e questa nascita psichica sarà la base che ci accompagnerà all’obiettivo massimo che si raggiunge nell’adolescenza: la separazione e l’individuazione di sé rispetto alle relazioni familiari.

Nasciamo psichicamente quindi proprio all’interno della prima esperienza che ci coinvolge di più: la nutrizione. Saremo nutriti al seno o col biberon tante volte al giorno per giorni e per mesi e questa esperienza è la più forte che leghi mamma e figlio, ed è lì che nasce già il concetto di cibo = amore, cioè di comunicazione non verbale, attraverso il cibo passano molte cose, non passa solo l’aspetto nutritivo dei grassi, delle proteine e degli zuccheri passa anche un nutrimento emotivo.

Uno psicologo dei primi del ‘900, Spitz, osservò che i neonati di un orfanotrofio di un paese dell’est che non erano mai stati presi in braccio, mai coccolati ma solo nutriti fisicamente, andavano incontro a gravissimi ritardi psicomotori e alcuni si lasciano morire. Questo dimostra quanto siano intrecciati i bisogni emotivi e nutritivi, quindi il bambino non deve mangiare per soddisfare le aspettative dei genitori, altrimenti si allontana dalla percezione di senso di sazietà che solo il suo corpo può dargli, e allontanandosi non sarà più capace di “sentirsi”.

L’incapacità di percepire il senso di sazietà lo ritroviamo nei disturbi alimentari, quindi è importante ascoltare, è importante non confondere i bisogni emotivi da quelli fisiologici, non diamo il cibo come premio, non diamo il cibo perché il bambino è annoiato  o per farlo stare buono, non utilizziamo queste strategie confusive , il momento del pranzo e della cena devono essere molto chiari, poniamo delle regole, perché le regole danno sicurezza al bambino ma non bisogna insistere né entrare in uno stato d’ansia perché l’insistenza genera resistenza,  e l’ansia è molto contagiosa, spesso i genitori, in particolare le madri caricano di ansia e  di molte aspettative il momento del pasto e il bambino per proteggersi non mangia.

La parola d’ordine è fidarsi della capacità di autoregolazione del bambino e anche accettare il fatto che il discorso del cibo in realtà è qualcosa che riguarda prima di tutto LUI, anche la mamma più brava del mondo non può sapere quello che prova il suo bambino, la fame è una sensazione che ha il bambino.

Vorrei che sia chiaro che percepire il reale bisogno del bambino non  è sinonimo di lassismo, al contrario è importante “creare” il momento del pranzo o della cena come ritmo giornaliero, preparare i pasti insieme, pensarci insieme, andare al supermercato magari scegliendo quelli in cui ci sono anche i carrelli piccoli per coinvolgerli di più, sfidarli per gioco a trovare per esempio” la verdura più rossa di tutte “,inserendo anche la parte sensoriale del cibo.

Facciamoci aiutare nella preparazione, tutti i bambini possono far qualcosa a seconda della loro età, creiamo un clima emotivo positivo, gli rimarrà come modello fino all’età adulta. Non piace forse a tutti noi preparare la cena con gli amici, cucinare insieme, utilizzare quel momento per stare insieme e raccontarsi?

Se iniziamo ad abituarli fin da piccoli alla condivisione della preparazione del pasto creeremo un un momento rilassante e sereno, per far mangiare il bambino non occorre riempire troppo il suo piatto perché il mangiare non è un fatto educativo “finisci tutto per educazione”, ogni porzione deve essere adeguata alla sua età di un bambino e nel momento in cui non gli va più, è inutile insistere.

All’inizio ho affermato che nella dinamica con il cibo sono coinvolti sia il bambino  che i genitori, aggiungo per concludere che ai genitori  spetta il 50% di responsabilità di proporre un’alimentazione sana e di porre delle regole e dei limiti,  ai bambini spetta il restante 50%: la possibilità di essere lasciati liberi di autoregolarsi chiaramente rispettando le regole .

 

Dottoressa Cipriano la ringrazio per questo interessante articolo, so che è molto difficile sradicare l’ansia che attanaglia ogni genitore quando il bambino “mangia poco”, so anche che per abitudine, per stanchezza, per non sentirli urlare prima o poi tutti abbiamo usato il premio, la punizione, la favola, il teatrino per “convincerli” a mangiare.  Gli articoli servono ad informare non a giudicare, in questo difficile-meraviglioso mestiere di genitori si impara strada facendo, si diventa consapevoli a furia di prove ed errori.

Lei ci ha fatto comprendere che il bambino è un soggetto attivo nella dinamica col cibo, insieme a noi, che ha una capacità di autoregolazione, che il rifiuto del cibo va interpretato, che dobbiamo stabilire delle regole e nello stesso tempo permettere al bambino di imparare a percepire la fame, la sete, la sazietà  “ascoltando” sé stesso .

La consapevolezza è sempre il primo passo verso il cambiamento, ora conosciamo meglio questo meraviglioso universo tutto da scoprire che è il bambino.

Adriana Cigni

 

 

 

 

 

Tutte le immagini sono prese dal web.

Dottoressa Paola Cipriano riceve
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Il Valore dell’Arteterapia nei Bambini con Mutismo Selettivo

Scrivendo l’articolo una delle tante cose che mi ha colpito intervistando Matteo Corbetta, è questa: nessun* bambin*, nessun* ragazzin* ha mai sentito il bisogno di abbandonare la sala di arteterapia, anche il più chiuso, il più silenzioso, il più bloccato…
sono rimasta conquistata dalla delicatezza dell’approccio, dalla sensibilità con cui si accoglie
“Per prima cosa mi presento al bambino e spiego in breve il lavoro che verrà fatto, con parole comprensibili e adatte all’età del bambino. Questo è l’impatto, in seguito preferisco comunicare con un canale non verbale e potete immaginare quanto questo sia fondamentale nel caso di bambini con mutismo selettivo. È mia premura rendere il setting in cui “lavoriamo” un luogo accogliente, dove vengano favorite le interazioni e nel quale ci si possa esprimere attraverso il disegno, la creazione di forme e la produzione di immagini. Devo dire che l’approccio ha sempre un esito positivo ed è spesso empatico, malgrado le normali difficoltà di essere in un luogo nuovo con un estraneo. Nessun bambino, in questi anni, ha mai sentito la necessità di uscire dalla stanza di arteterapia. È necessario rispettare i loro tempi, è probabile che in una prima fase il bambino abbia la necessità di tenere sotto controllo ogni movimento del terapista e sia attento agli stimoli contestuali. Con il trascorrere del tempo nella stessa seduta, o in quelle successive, si instaura in modo naturale la relazione con i materiali e con il terapista stesso.

http://www.youreduaction.it/valore-arteterapia-bambini-con-mutismo-selettivo/

Anticipare l’ingresso alla scuola materna e alla scuola elementare intervista alla Dottoressa Alessandra Marelli, Psicoterapeuta.

Anticipare l’ingresso alla scuola materna e alla scuola elementare intervista alla Dottoressa Alessandra Marelli, Psicoterapeuta.

Prima di scrivere questo articolo sono andata un po’ in “giro” su internet per vedere cosa succede negli altri paesi, per esempio nel paese europeo che viene preso sempre come massimo esempio di sistema scolastico all’avanguardia, la Finlandia.

scuola finlandese

I bambini  finlandesi iniziano la scuola elementare a 7 anni. Dai 5 ai 6 anni frequentano una sorta di pre-scuola. Pare anche che dopo ogni ora di lezione abbiano 15 minuti di pausa…

E ora passiamo a noi.

Dottoressa Marelli un tempo andare a scuola a 5 anni era una vera eccezione, quelli che lo facevano venivano quasi considerati speciali, geni, dotati di intelligenza superiore alla media, oggi anticipare l’ingresso alla scuola materna e /o alla scuola elementare sta diventando un fenomeno sempre più diffuso, lei sa spiegarne le ragioni?

Fino a qualche tempo fa si anticipava l’entrata alla scuola materna per motivi economici, i nidi erano rari e molto costosi, e quindi si anticipava più che altro per risparmiare le onerose spese della retta mensile, oggi però non è più così, la situazione è cambiata ed entrano in gioco altri fattori. I nidi sono numerosi, in alcune Regioni o Comuni si possono anche richiedere sovvenzioni per pagare le rette, c’è più possibilità di scelta anche a livello economico, quindi il “risparmio “non è più la causa principale di questo incremento.

Eppure, è un fenomeno sempre più diffuso. Perché?

È un’esigenza dei genitori, c’è un desiderio di anticipare i tempi scolastici per far “guadagnare un anno” (lo dicono in molti) al figlio.  In pratica si richiede non per ragioni relative  al momento attuale della vita del bambino, ma in prospettiva di un vantaggio futuro, se vantaggio si può considerare.

Poniamoci queste domande: che vuol dire fargli guadagnare un anno? Rispetto a cosa? Rispetto a chi? Ai suoi coetanei? Alla società?

Si ha davanti un bambino di 2-3 anni e si è già proiettati nel suo futuro di adulto: che terminerà prima le elementari e quindi le scuole superiori e quindi la laurea e quindi…

Io credo sinceramente alla buona fede dei genitori, credo che considerino questo anticipo una sorta di regalo ai figli, ma in realtà sembra quasi una sorta di gara.

Dottoressa ci sta dicendo che carichiamo i bambini già di mille aspettative fin da piccoli? Però io credo che anche i genitori si sentano un po’ confusi, magari pensano “ora tutti anticipano l’ingresso alla scuola materna e alle elementari e lo faccio anch’io altrimenti mio figlio sarà l’unico a non saper leggere e scrivere e rimarrà indietro, si sentirà diverso, o addirittura emarginato.”

Comprendo la difficoltà e il bisogno di uniformarsi ma forse dovremmo trovare la forza di pensare solo ai bambini nei limiti delle pressioni che la società ci impone, che noi adulti gli imponiamo, perché conduciamo vite frenetiche, abbiamo fretta che diventino autonomi molto presto per poter facilitare la loro e la nostra vita quotidiana, ma ogni tanto dobbiamo fermarci e pensare come poter conciliare tutto questo, facendo anche qualche sforzo in più per poter andare incontro alle esigenze del bambino.

È vero ci sono bambini che fin dalla materna imparano a leggere e a scrivere, è vero anche che ci sono bambini che sanno già adattarsi precocemente a restare seduti delle ore, ma… ci sono moltissimi bambini di 5 anni per i quali restare seduti 6 ore, ascoltare, restare in silenzio, concentrarsi comporta uno sforzo enorme perché il loro sviluppo fisiologico e cognitivo non è ancora pronto a questo. Ci sono teorie dell’apprendimento che dimostrano e spiegano che alcune aree cerebrali si sviluppano in determinate età.

Dottoressa qualcuno potrebbe obiettare che è pur vero che quelle stesse aree si sviluppano anche in conseguenza di stimoli esterni.

Certo anche questo è vero! Ma non tutti sono recettivi allo stesso modo.

Se mio figlio sa leggere e scrivere a 5 anni posso provare a dargli degli stimoli in più, ma sotto forma di gioco, senza sovraccaricare il sistema, altrimenti questa intelligenza e questa capacità di apprendere si può trasformare in avversione. Nella mia esperienza in studio mi è capitato varie volte di incontrare bambini o adolescenti figli di professionisti, intellettuali, professori che avevano percorsi scolastici disastrosi.

Accade che le  aspettative personali  non vengano esaudite,  pensiamo che il bambino prenderà una strada e spesso invece ne segue un’altra completamente diversa, o a volte nessuna perché è confuso, pensare che anticipare l’ingresso alla scuola materna ne farà automaticamente alunni con  quozienti d’intelligenza superiori alla media è un’utopia, a volte avviene il contrario sono  adulti che hanno difficoltà, perché hanno sempre dovuto correre, sforzarsi di vivere situazioni che non sono in armonia con il loro sviluppo,  l’anticipo non gioca sempre a favore del bambino. Un esempio breve: il bambino ha 5 anni e la maestra dice che non sta fermo un secondo, non sta seduto, non ascolta.

Ascoltare è uno sforzo! È probabile che il bambino non abbia nessun problema se non quello di non essere ancora pronto per la scuola elementare.

Ovviamente il mio discorso non è assoluto, è vero che ci sono bambini che sanno già leggere e scrivere alla fine della scuola materna questo è indubbio, ma rispetto a quello che è il bisogno del bambino (anche se il bambino sa leggere e scrivere), qual è lo scopo di anticipare l’ingresso alla scuola materna, per prendere prima la laurea? Un tempo i bambini della scuola materna erano tutti coetanei, più o meno avevano la stessa età, oggi si trovano bambini dai 2 anni ai 3 e mezzo.  È un gap enorme per quella fascia di età, un anno è un tempo lunghissimo durante il quale avvengono sviluppi e trasformazioni nel bambino, a livello fisiologico e cognitivo. In effetti imparare a leggere e scrivere in prima elementare è giusto! La prima elementare si frequenta per questo!

Qual è il suo consiglio?

A volte il peso delle nostre aspettative è enorme e difficile da portare per i nostri bambini, anche il nostro sguardo ne è carico, i bambini imparano fin dai primi mesi di vita ad interpretare le nostre emozioni, di conseguenza più crescono più sentono la disapprovazione o la non soddisfazione, i giudizi, i voti a scuola già sono carichi pesanti da gestire, il giudizio dei genitori può diventare frustrante.

Se volete crescere una persona in gamba, indipendentemente da quello che farà da grande, se volete farne un adulto felice e sereno, non potete imporre dei ritmi che non sono del bambino, l’imposizione non è solo verbale è anche nel nostro modo di porci, dei gesti, dei paragoni, di alcune frasi che abbiamo buttato qua e là, dalla modificazione della voce rispetto ad un risultato, un voto, un giudizio negativo avuto a scuola.

Ha ragione Dottoressa Marelli i voti , i giudizi, i paragoni con i fratelli, o con altri compagni, il senso di delusione servono solo a distruggere l’autostima e a fare a pezzi la fiducia in sé stessi.

Noi siamo diventati i mandatari delle felicità dei nostri figli, dobbiamo assicurarci che siano felici. Ma non è il nostro compito, noi possiamo dargli gli strumenti per andare nel mondo, poi loro effettueranno le loro scelte in base a quello che gli abbiamo insegnato, è più importante che un bambino sappia leggere o scrivere in anticipo, oppure che da adulto sappia reagire, abbia gli strumenti per adattarsi in modo sereno ad un mondo che cambia e anche alle situazioni anche più difficili?

Dottoressa quello che lei dice mi colpisce profondamente, quando mio figlio (è bilingue italiano-francese) frequentava la scuola materna io mi occupavo come volontaria della biblioteca, una volta a settimana aiutavamo i bambini a scegliere i libri, in realtà li lasciavamo liberi di farlo, poi scelto il libro ognuno doveva scrivere il proprio nome, come firma del  prestito del libro. Mio figlio non riusciva a scriverlo il suo benedetto nome.

Io ero preoccupatissima, cercavo di allenarlo a casa la sera, facevo come mia madre, mettevo la mia mano sopra la sua e cercavo di fargli scrivere almeno le prime tre lettere. Non ci posso pensare! Chissà quante volte avrà visto il mio sguardo preoccupato (pensavo che non avrebbe mai imparato a scrivere!).

Cosa è successo? A 6 – 7 anni leggeva in francese e in italiano. Alla scuola media ha scelto un percorso linguistico: ora scrive in tedesco, francese, inglese e …italiano. Parla italiano con forte accento francese, parla francese senza alcun accento.  Ha una passione smodata per il tedesco lingua difficile da leggere e figuriamoci da scrivere. Ha ragione Dottoressa Marelli a volte pretendiamo troppo, senza attendere i loro normalissimi tempi.  Siamo noi che dovremmo smettere di farci prendere  dall’ansia anticipatoria, perché poi alla fine ci sorprendono ognuno con le proprie capacità.

Esatto dobbiamo semplicemente lasciare che siano loro stessi.

Alcuni amano disegnare, lo sport, altri non hanno preferenze. Il valore della persona non è costruito su ciò che fa, già da piccolo, il valore della persona è costruito in base a quello che   è.

 

 

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Un mondo migliore è possibile se rivolgiamo lo sguardo in quello che di buono già c’è e lo valorizziamo

Una riflessione di PAOLA CIPRIANO

Una delle passioni che abbiamo in comune, io e mia figlia, sono i libri.

Frequentiamo assiduamente la biblioteca di zona: ore insieme trascorse a cercare, sfogliare, leggere i meravigliosi libri esposti.
Qualche giorno fa, entrando nella saletta dedicata ai bambini, abbiamo trovato una scena tristissima: libri buttati per terra, calpestati e maltrattati. Bambini di circa dieci anni che sghignazzavano mentre le rispettive mamme si alternavano tra chiacchiere con le amiche e cellulare.

 

A vedere quei libri per terra mi è salito il magone, Chiara ha sgranato gli occhi.
Arriva la bibliotecaria che, con tono giustamente arrabbiato, riprende le mamme: “Mamme ma che vergogna.. la biblioteca non è una ludoteca, abbiate rispetto! ”
Tutte la guardano come se fosse un marziano sbucato fuori all’improvviso. Con aria di sufficienza distolgono lo sguardo e continuano a fissare lo schermo del cellulare.
Come se niente fosse.
È un attimo. Senza che dicessi nulla mia figlia si alza e, uno dopo l’altro, inizia a raccogliere i libri abbandonati per terra dai bambini che hanno quasi il triplo della sua età.
Li sistema e poi soddisfatta torna da me.
Il mio cuore esplode di orgoglio, ovviamente.
In realtà ciò che più mi colpisce e mi fa riflettere è la reazione della signora.
Si avvicina a mia figlia, si abbassa e guardandola negli occhi la ringrazia. La prende per mano, la porta nel suo ufficio e le regala una sua sacca a tracolla e un libro.
Chiara è orgogliosissima.
Felice, piena di un riconoscimento che un adulto le ha dato.
Ecco pensavo a questo: quanta responsabilità abbiamo noi adulti, tutti, anche chi figli non ne ha, nei confronti dei bambini. La bibliotecaria avrebbe potuto lasciar cadere nel vuoto quel bellissimo gesto, spontaneo (e quindi ancor più prezioso) di una treenne.
Senza riconoscimento le belle azioni, i profondi valori, non hanno senso. Non esistono, smettono di brillare. Non si ripetono. Un mondo migliore è possibile se rivolgiamo lo sguardo in quello che di buono già c’è e lo valorizziamo. Lo Riconosciamo, confermandolo nella sua esistenza. Il vero insegnamento per mia figlia è stato questo. All’uscita dalla biblioteca ha detto: “Io ho aiutato la signora e lei è stata gentile con me”.
Tradotto: l’amore porta amore.

 

PAOLA CIPRIANO

Conversazione con la Dottoressa Alessandra Marelli Psicoterapeuta

Dottoressa Marelli lei è una psicoterapeuta a quale tipo di orientamento terapeutico fa riferimento?

Sono una psicoterapeuta di orientamento  gestaltico, Emdr primo e secondo livello, mi occupo anche di grandi e piccoli traumi, lavoro con i bambini, gli adulti e le coppie.

Mi occupo anche di supervisioni all’interno di asili nido e scuole materne e di formazione specifica per gli operatori d’infanzia (educatori, maestre e insegnanti)

 

 

 

 

 

Sono anche Presidente di ASIPP (Associazione Scientifica Italiana di Psicologia Perinatale)

Che vuol dire orientamento gestaltico?

L’approccio gestaltico  (da Gestalt [1]) rientra tendenzialmente nel filone psicodinamico, non si limita quindi a curare o a modificare  un comportamento, ma tende a capire quali siano  le origini di quel sintomo , di quel comportamento che diventa disadattivo in un periodo particolare della vita di una persona. Lo scopo è quello di ripristinare l’equilibrio lavorando alla base del sintomo e non sul sintomo in sé stesso.

È un approccio completo che considera la globalità della persona, la mente, la parte emotiva, e porta l’attenzione anche sul corpo, la postura, il modo di parlare, di sedersi, come si sta nel mondo attraverso il proprio corpo.

Io sono anche una psicoterapeuta EMDR  e d ho trovato in questi due modelli un concetto fondamentale che li accomuna: la persona è una struttura unitaria e va vista nel suo insieme, sempre.

Mi soffermo sulla sua attività nelle scuole, cosa intende per  “supervisioni educative”?

In pratica mi occupo dei casi di bambini, con qualche problema particolare, che mi vengono indicati dal corpo insegnante, ma soprattutto mi occupo del benessere generale dell’equipe, credo che sia fondamentale occuparsi degli insegnanti, dalla loro serenità dipende anche il miglioramento del lavoro educativo e di conseguenza anche il benessere dei bambini.

Credo che sia sostenere e supportare gli insegnanti in modo che qualsiasi frustrazione o problema venga risolta o attenuata prima che si ripercuota sul lavoro, e quindi inevitabilmente abbia un impatto sui bambini.

Credo che questo suo intervento e supporto agli insegnanti sia fondamentale Dottoressa Marelli, e rispecchi anche un ‘esigenza molto attuale e dibattuta. Ora le pongo una domanda apparentemente facile ma la “obbliga” a raccontarmi un po’ la sua storia: perché ha scelto di fare questo lavoro?

Ah che domanda!

Parto dal presupposto che ho sempre pensato di fare la psicoterapeuta. Ma prima di approdare veramente alla mia professione ho avuto l’esigenza di vivere esperienze completamente diverse. Non faccio parte di coloro che hanno rispettato tutte le tappe in maniera regolare, ho fatto molti altri lavori (gestione di un locale, istruttrice di nuoto) che apparentemente non avevano alcuna relazione con la psicologia, ho viaggiato molto e anche vissuto all’estero (negli Stati Uniti, in Spagna), mi sono costruita un bagaglio di esperienze anche difficili ma che fanno di me la persona che sono oggi, la professionista che sono oggi.

In tutto questo viaggiare e svolgere anche lavori molto lontani dalla vocazione psicologica, mi sono resa conto che ovunque andassi, qualunque cosa facessi, mi tornava in mente questo desiderio di poter aiutare gli altri a stare meglio. Mi sono laureata tardi e la mia laurea l’ho conseguita lavorando a tempo pieno in una comunità per minori, questa per me è una delle più belle conquiste della mia vita, ho ottenuto un risultato importante, la mia laurea, in breve tempo affrontando enormi sacrifici. Ho costruito la mia carriera, la mia indipendenza con le mie sole forze e questo sono felice di dirlo: mi rende davvero fiera.

Ho capito in seguito che tutte le esperienze vissute, così lontane da quella che era la mia vocazione, oggi rappresentano un bagaglio utilissimo per la mia professione, mi aiutano comprendere meglio anche i miei pazienti, ad empatizzare,  perché molte esperienze le ho vissute personalmente.

Dottoressa Marelli nei prossimi articoli entreremo un po’ più nel dettaglio della Psicologia Perinatale, lei perché ha scelto questo tipo di specializzazione?

Ho partecipato ad un Corso di Alta Formazione Professionale, riguardante la Psicologia Perinatale. e nel corso di questa formazione ho conosciuto due colleghe con le quali ho subito condiviso l’idea di sviluppare questo tema, e grazie a questa passione comune abbiamo creato ASIPP (Associazione Scientifica Italiana di Psicologia Perinatale).

https://asipp.wordpress.com/

Abbiamo fondato l’associazione perché ci siamo rese conto che c’è molta disinformazione e molti pregiudizi su l‘essere madre, è come se esistessero due fazioni quasi opposte: da una parte la mamma “ad altissimo contatto”, allattamento prolungato, co-sleeping, e dall’altra parte la mamma che opta per la massima autonomia: il bambino subito nel lettino nella sua stanza, nessun allattamento al seno.

A noi non interessa giudicare, non ci sono mamme di serie A o serie B, ci interessa andare oltre le credenze e i pregiudizi, ci interessa fare un po’ di chiarezza ricordando che esiste una fisiologia del bambino che va rispettata e che è associata anche alla psicologia. Vogliamo porre anche l’attenzione sul fatto che esiste il bambino ma anche la madre, anzi la donna, che deve costruirsi i il ruolo di madre, e deve avere la forza di accettare l’ambivalenza che c’è in questo ruolo, di accettare il fatto che il picco di felicità del sentirsi madre non sarà sempre a livelli altissimi, che ci saranno momenti di sconforto, di stanchezza e che questo non le trasforma in madri inadeguate. Cerchiamo di far accettare tutto questo alle donne-madri dando nozioni di base di fisiologia, ma soprattutto lasciandole libere di decidere di essere madri come loro sentono di esserlo, senza alcun precetto, senza quel dubbio continuo di essere sbagliate.

Dottoressa lei organizza anche dei seminari informativi per genitori?

Sì, organizzo anche dei seminari formativi su alcuni temi che li riguardano molto da vicino come per esempio i capricci dei bambini, oppure un altro tema sul quale sto lavorando per il prossimo incontro è quello sull’autonomia, capire perché molti genitori decidono di iscrivere i bambini molto piccoli alla scuola materna facendoli entrare come anticipatari (ora la legge lo permette), per poi far iniziare prima elementari in anticipo.

Di chi è l’esigenza? È un’esigenza del bambino? Ci sono dei vantaggi?

Vorrei far capire che non si possono bruciare le tappe fisiologiche e che quello che viene sottratto in un ‘età così importante è bambino è qualcosa che mancherà al bambino che andrà poi a cercare in altre cose… continua nei prossimi articoli.

Grazie Dottoressa quest’ultimo tema mi sembra molto interessante e soprattutto attuale, vogliamo parlarne nel prossimo articolo?

A presto

 

 

 

 

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20030 – BOLLATE (MI)

 

[1] Gestalt therapy  creata da Friedrich Perls negli anni ‘50

Il vuoto

È successo credo almeno una volta a tutti i genitori.

Per quanto attenti , per quanto pensiamo di avere 4 -8 – 10 occhi, per quanto diciamo “ah no a me non può succedere”, invece avviene magari una volta sola, ma succede che li perdiamo di vista un nanosecondo, quel tempo brevissimo di non vita, perché tutto in noi si blocca, il respiro, la vista…la vita.

Come immagine ho scelto questa specie di nulla, di vuoto per rappresentare quello che si prova, dentro.
Preso dalla Dottoressa Paola Cipriano.

“Non mi era mai successo in 6 anni e mezzo ma oggi, per dieci minuti, ti ho persa.
Tra tante persone, in quella che era una bella giornata di festa di primavera, ti ho persa.
All’improvviso i colori intorno mi davano la nausea, i volti mi parevano fantocci o potenziali nemici.
Il mondo si è fermato, tutto all’improvviso ha smesso di esistere. Come quando schiacci pausa sul telecomando. Come quando immergi la testa sott’acqua e i rumori esterni diventano lontani, ovattati.
All’improvviso percepivo solo me stessa che ero diventata terrore. Il cuore, il respiro. Apnea.
Forse sono stati meno di dieci minuti ma son sembrati eterni.
Alla fine niente di grave, tu dietro a dei giochi, tranquilla.
Ho dovuto prendermi del tempo. Mi sono allontanata. E poi ho pianto.
Ho pensato alla mente di una madre, come reagisce a fronte della paura ancestrale. Quella che non ci diciamo mai.
La paura che questo amore, così profondo, possano rubartelo.
E per una frazione di secondo, mentre respiravo e ti baciavo la guancia perché avevo bisogno di sentire che eri davvero tu, ho pensato che non sarei sopravvissuta.”

Paola Cipriano

L’origine di tanto dolore negli adulti va ricercato nelle atmosfere quotidiane tra le pieghe dell’infanzia.”

Ho raccolto e conservato questo “pensiero” della Dottoressa Paola Cipriano perché mi ha colpito molto. Non giudico e non commento questo papà che sposta l’attenzione dalla paura della sua bambina al suo essere “diversa” dagli altri.

Quel “unica” tra tutti i bambini, e “rovini tutto” rimarrà come un marchio nella mente della bambina.

Riflettiamo.

“L’origine di tanto dolore è proprio in quei momenti quotidiani in cui gli adulti non garantiscono il rispecchiamento del bambino.
Per chi fa il mio mestiere sa cosa intendo. In un adulto insicuro, infelice, fragile si ritrovano sempre ricordi antichi caratterizzati da sguardi gelidi, gesti mancanti, tristi atmosfere. Violenze striscianti.
Oggi ho pensato a tante persone diventate adulte mentre osservavo quella bambina di circa due anni che piangeva disperata di fronte a dei personaggi travestiti che si muovevano con i trampoli.
La bimba disperata, con le braccia tese verso la mamma: “ho paura” urla con angoscia.
Il papà si avvicina e con sguardo gelido si rivolge a lei: “Sei una deficiente, l’unica che frigna tra tutti questi bambini. Rovini tutto, stupida.”
La bambina piange, con gli occhi sbarrati.
L’origine di tanto dolore negli adulti va ricercato nelle atmosfere quotidiane tra le pieghe dell’infanzia.”

Paola Cipriano

Vorrei tanto avere un figlio…

Vorrei tanto avere un figlio ma ho paura!

Dottoressa Cipriano chissà quante volte avrà sentito quest’affermazione.

Conosco donne che dichiarano di non avere desiderato altro nella vita e sembrano non avere dubbi, ma ne conosco altre che invece che pur non escludendone la possibilità sono piene di dubbi, di insicurezze, di sentimenti di inadeguatezza. Secondo la sua esperienza cosa spaventa di più?

Per prima cosa spaventa il fatto che si vive un passaggio importantissimo, cioè si passa da figlio a genitore.

E questo cosa comporta?

Comporta una maggior maturità, una maggior responsabilità e poi c’è quel “per sempre”, che non vuol dire che ti occuperai di tuo figlio per sempre, ma che sarai genitore per sempre. 

Il passar dall’altra parte della barricata può anche evocare la paura di essere giudicati, perché finché non si diventa genitori le scelte riguardano solo la singola persona, che può anche  vivere senza esporsi mai,  con un figlio si è obbligati  ad entrare  nel mondo,  improvvisamente  aumenta la visibilità e di conseguenza anche la possibilità di essere giudicati per ciò che si fa , l’idea che il figlio sia anche il prodotto di quanto uno sia stato sufficientemente bravo o meno, può condizionare molto. E se si ha un vissuto d’insicurezza, se si pensa di non riuscire mai a portare a termine un progetto, anche solo l’idea di avere un figlio può attivare un senso di inadeguatezza.

Si pensa di non potercela fare.

Quindi Dottoressa un figlio rompe ogni schema, impone delle responsabilità, detronizza dal ruolo di solo “figli” e poi ci getta nella più grande incertezza, non possiamo prevedere NULLA!

Grazie Adriana introduci proprio un concetto fondamentale: il salto nel buio

Un figlio è un salto nel buio perché non sai come andrà la gravidanza;

non sai come sarà il parto;

non sai se sarà sano;

non sai cosa gli succederà nella vita;

puoi immaginare, investire con progetti mentali, speranze metterci un grande impegno… ma il risultato ce l’avrai dopo tanto tempo, se così si può dire, bisogna tollerare l’incertezza. Immaginiamo di seminare e attendere con pazienza che dai semi cresca una meravigliosa pianta.  È un continuo confronto con i propri limiti, con il fatto che non possiamo tenere sotto controllo quasi nulla né l’andamento della gravidanza, né la salute del bambino, certo noi possiamo fare delle scelte di buon senso non bere, non fumare condurre una vita sana, ma non sappiamo come andrà a finire,

È un processo autonomo, che distrugge la nostra illusione di poter tenere sotto controllo le cose, è un banco di prova!

E infine Dottoressa credo che molte paure siano insite nel nostro essere figli, nel senso che se non abbiamo avuto un’infanzia serena forse questo può fortemente influire sulla paura di avere un figlio.

In effetti il rapporto con i propri genitori può giocare un ruolo fondamentale nella paura e nel desiderio o meno di avere figli, senza entrare in questa sede in esperienze fortemente traumatiche, se una persona ha un vissuto “faticoso” come figlio per varie ragioni: i genitori hanno divorziato; la madre era molto depressa; i genitori litigavano spesso e magari i litigi vertevano proprio sulla gestione dei figli, queste esperienze rimangono nella memoria.

E se non rimangono nitide perché magari vissute nella prima infanzia, rimane la loro impronta e a volte malgrado il desiderio di avere figli, si rinuncia per la paura di ripercorrere la stessa strada dei genitori.

 

La gravidanza: un momento evolutivo

La gravidanza è un momento particolare della vita di una donna, il concetto può sembrare banale ma non lo è affatto secondo me, soprattutto se si esce dall’iconografia della pubblicità che fa apparire tutto rosa o azzurro , tutto semplice, tutto “scarpette fatte ai ferri” e basta.

Non c’è solo questo, bisogna dare un nome alle cose e alle emozioni, questo rende la vita più difficile? Certo, ma fa più male nascondere la realtà dietro una facciata di totale felicità.

Qualsiasi esperienza ha un impatto sulla nostra vita psichica e pratica, credo che la gravidanza sia una delle esperienze più “estreme” se non addirittura la più estrema di tutte, come dice la Dottoressa Cipriano, per un periodo siamo 2 in  1, non esiste nessuna esperienza di vita comparabile al dare vita ad un altro essere e portarlo in sé.

Inizialmente questo articolo doveva aprirsi con una  domanda  “gravidanza programmata e non programmata, quali differenze nel vissuto di una donna?” ma poi le risposte della Dottoressa mi hanno capire che è molto più giusto parlare di gravidanza in generale perché non esistono leggi che le dividano nettamente, ci possono essere delle differenze ma tutto dipende dalla persona, dalla sua storia personale, dalla personalità delle donna.

 Quindi detto questo, Dottoressa Cipriano entriamo un po’ più in dettaglio nel tema.

LA GRAVIDANZA

Partiamo un concetto fondamentale: la  gravidanza è un momento evolutivo, un momento di crisi, sì proprio di crisi, perché alla parola crisi non dobbiamo dare né un’accezione positiva né negativa, è crisi quando si rompe un equilibrio.

In effetti la gravidanza  è un momento di rottura di un equilibrio e la costruzione di un nuovo, perché una donna deve costruire una nuova identità che prima non c’era. I momenti di passaggio, di crisi sono delicati, si corre sempre il rischio di  distorsioni psico- patologiche, perché nella costruzione di una nuova identità possono  tornare a galla storie irrisolte con i propri genitori, oppure della propria storia  personale,  è il momento in cui la donna deve riuscire a risolvere gli eventuali conflitti.

Immaginiamo un bivio o si segue un percorso in cui alcune questioni irrisolte tornano a galla e la donna sta male e deve far di tutto per non abbandonarsi e prendersi cura di queste parti, oppure  ne segue un altro, e la gravidanza è l’occasione per effettuare un passaggio maturativo

In effetti la gravidanza  è  proprio un passaggio maturativo che  non si conclude con il parto, ma  è un percorso che si realizza di pari passo con tutte le varie tappe evolutive del bambino.

Dottoressa ho l’impressione che ci stia dicendo come è giusto che sia che la gravidanza e quindi la nascita di un figlio è un’esperienza irreversibile non solo praticamente ma anche psicologicamente?

Esatto, la gravidanza  è un punto di non ritorno, bisogna affiancare a questa esperienza  il concetto di lutto anche se sembra paradossale,  perché tutto quello che c’era prima nella vita della donna, non ci sarà mai più, è questo è assolutamente indipendente dal fatto che il figlio sia stato programmato o meno.

In realtà nella nostra vita viviamo diverse volte “punti di non ritorno”, per esempio quando approdiamo nell’adolescenza, quel momento di passaggio a volte così impattante in cui dobbiamo salutare la bambina che eravamo e non saremo mai più. E ancora un altro punto di non ritorno è proprio quando abbiamo un figlio e da quel momento non saremo mai più una donna senza figli, perché è indubbio che si è madri per sempre.

Proprio perché c‘è un punto di non ritorno che si usa la parola lutto .

Insomma è una fine e un inizio, tutto un percorso da costruire e allora come affrontarlo ?

La vera  sfida sta nel  ritrovare un punto di equilibrio tra la nuova identità materna e l’identità femminile, è importante che il sé femminile trovi uno spazio, una sua possibilità di esprimersi proprio per  non essere sbilanciati  in questa costruzione di identità , è necessario  fare in modo che tutte le parti, possano attivarsi. Anche il corpo cambia, durante e dopo il parto, oggi molte riescono a tornare “come prima”, altre no e anche quello è una passaggio, un cambiamento che in alcuni casi può essere difficile da accettare.

Quando è nato mio figlio è cambiato il rapporto  con mia madre, non ero più solo figlia ero anche madre anche in questo si cambia. Dottoressa ci parli di questi lunghi 9 mesi, come li vive la futura mamma? Quando inizia la sua relazione con il bambino?

Con la gravidanza si  passare dall’altra parte delle barricata, si acquisisce  una funzione genitoriale , è un periodo di grande impegno per una donna perché è impegnata non solo a far spazio al bambino nel suo corpo, ma anche nella sua mente,  e con il tempo il  bambino  è sempre più “pensato” e questo immaginario è importante perché la gravidanza è lunga e i 9 mesi servono proprio  prima ad abituarla al fatto di essere incinta e poi  di aspettare un bambino, perché anche se sembra strano sono  due cose diverse .

All’inizio,  nelle prime settimane, la donna è concentrata sulla sua condizione di essere incinta, deve dirlo sul luogo di lavoro lavoro, deve annunciarlo alla famiglia, deve anche convincersene  lei stessa!

Di solito inizia a immaginare il bambino dal terzo mese in poi, è da questo momento che inizia a costruire il legame emotivo immaginario con questa vita, il bambino  inizia ad avere un volto,  (viene detto il bambino della notte), anche nella mente si fa spazio il pensiero del bambino, i nove mesi servono anche a questo, a sentirlo come una vita che fa parte di lei. Il tempo per poter  “far spazio”, permette di accogliere questo bambino emotivamente e simbolicamente  e questo facilita l’accoglienza dopo la nascita.

Immagino che anche qui ci sia un altro momento di grande impatto

Certamente perché  dopo la nascita dovrà  affrontare un’altra separazione:  deve lasciare questa condizione pazzesca e incredibile dell’essere incinta, quest’esperienza emotivamente fortissima e potente dell’essere due in uno. Deve elaborare questa separazione e deve elaborare  anche il fatto che il  bambino che è nato non è quello che ha immaginato, è quello reale, deve salutare quello immaginario e accogliere quello reale.

Quindi tornando al nostro tema iniziale in effetti non ci sono molte differenze tra gravidanza programma e non.

Non potrei considerare una differenza così netta, può essere che se la gravidanza è desiderata, se è stata programmata può essere che sia più semplice superare  questi passaggi, ma non c’è nulla di  automatico,  in entrambi i casi dipende  da come la donna affronta la situazione .Durante la gravidanza i, in alcune donne, possono emergere delle ferite antiche nel rapporto con la madre, nel suo essere figlia che non sono state elaborate  e nella gravidanza non programmata è possibile che ci siano più difficoltà nell’accoglienza, ma tutto dipende anche dalla donna, dall’elasticità , dalla capicità di affrontare le situazioni.

Un autore  aveva distinto, diversi  “stili”  materni, lo stile  materno è quello che influenza le aspettative, le fantasie, e anche la relazione tra madre e bambino

E quindi distingueva “ la madre facilitante” che vive la maternità  in modo positivo, è  luminosa e costruisce con facilità un’identità materna, accetta tutti i cambiamenti, si modella a questa nuova vita senza grandi resistenze.

Diversamente dalla  “madre regolatrice” che si  basa sul controllo, che fa fatica ad accettare le modificazioni del corpo,  una donna  che spesso percepisce il bambino come un intruso.

Dottoressa tra la facilitante  e la regolatrice c’è una via di mezzo, ci sono tante donne che pur sentendosi a tratti super mamme, a tratti completamente inadeguate , vivono i nove mesi e la nascita sempre con tanta energia, dubbi, amore e timore per questa nuova responsabilità 

 

 

 

 

 

 

 

 

Infatti nel mezzo c’è una donna che accetta il bambino, ma nello stesso tempo accetta anche di essere attraversata da sentimenti di ambivalenza, cioè emozioni negative e positive insieme e a questa ricetta già di per sé abbastanza carica possiamo aggiungere anche un pizzico di malinconia per tutti quei cambiamenti inevitabili, per il corpo che si trasforma in una modalità fino a quel momento sconosciuta e incontrollabile e per tutta quella parte di vita che per un po’ dovrà essere messa da parte. Accanto alla malinconia ci sarà la meraviglia e il timore quel quell’avventura in cui, anche se circondata da amore e persone , lei e il bambino saranno i protagonisti assoluti.

In entrambi i casi quindi , che il bambino sia stato programmato o meno, tutto dipende anche dalla capacità della donna di adattarsi, dalle risorse che ha, dal supporto, dal fatto che abbia o meno una rete di persone, familiari amici che la sostengono, e anche dal rapporto con il partner.

Grazie Dottoressa credo che siamo solo all’inizio di questo viaggio emotivamente intenso della donna che parte dal” bambino pensato” al neonato, continua…

Articolo di Adriana Cigni

 

Tutte le immagini sono prese dal web.

Dottoressa Paola Cipriano riceve
in Viale Ungheria, 28
20138 Milano
Zona Milano Sud, Corvetto, Corso Lodi.
Santa Giulia
Milano
Zona Rogoredo
Telefono:
344 340.06.16       mail:   [email protected]

Ansia e paura. Tre domande alla Dottoressa Trivelli

Continua il viaggio nel “pianeta ansia”, un tema che riscuote sempre un grande interesse.

Dottoressa Trivelli l’ansia cos’è?

L’ansia è un’emozione secondaria caratterizzata da una serie di sensazioni fisiche come l’aumento della pressione, della tensione muscolare, la sensazione di minaccia, la preoccupazione.  Sia chiaro che di per sé l’ansia non è qualcosa di negativo, al contrario è utile all’adattamento, infatti nel corso dell’evoluzione se l’uomo non avesse mantenuto attive emozioni quali l’ansia e la paura, non si sarebbe evoluto perché non sarebbe riuscito a far fronte a nessuna situazione. Una totale mancanza di paura ne avrebbe provocato l’estinzione e, ancora oggi, non riuscirebbe ad attraversare una strada trafficata se non avvertisse un po’ di paura e di ansia.

Quindi l’ansia in tutti quei momenti in cui dobbiamo affrontare una prova, una situazione in cui sono necessarie concentrazione e attenzione, è una vera e propria un’alleata, perché entro certi limiti     ha la funzione di ottimizzare le funzioni psicofisiche.

Ansia e paura: che cosa le distingue?       

Parliamo di ANSIA quando le persone credono di essere esposte ad una minaccia, più o meno imminente o grave, quando in realtà non è generata specificamente dall’evento minaccioso, ma scaturisce da tutti quei pensieri che facciamo su quello che sta accadendo, su quello che accadrà, o su quello che potrebbe accadere. Inoltre, l’ansia dipende anche da come ci sentiamo noi: adatti o efficaci ad affrontare quella possibile situazione.

Quando invece siamo esposti ad una minaccia reale l’emozione che si scatena viene definita PAURA. Per intenderci se ci troviamo in casa, di notte, sentiamo una finestra sbattere e un tonfo, segno che qualcuno è entrato la sensazione che proviamo è la  paura. Se invece usciamo dimenticando di attivare l’allarme antifurto e con l’incertezza di aver chiuso le finestre, la sensazione che proviamo è ansia.

Ansia e paura differiscono, anche se le reazioni a livello fisico sono più o meno le stesse : tachicardia, sudorazione, respirazione affannosa, nodo alla gola, molto caldo, molto freddo, nel caso del nostro esempio quello che percepiamo nel primo caso è la reazione, la paura di fronte ad un pericolo reale, mentre l’altra è la reazione ansiosa di fronte ad un pericolo percepito.

 

La paura

La paura è sicuramente l’emozione più antica ed è fondamentale per la sopravvivenza, motivo per cui non è stata eliminata nell’evoluzione e nemmeno l’ansia, o la rabbia. La paura la proviamo quando siamo di fronte ad un pericolo e dobbiamo proteggere la nostra vita fisica e psichica, è una risposta mirata e diretta ad un evento specifico o ad un oggetto specifico, e di solito la persona è completamente consapevole della situazione minacciosa.

Dottoressa quindi la paura è qualcosa di tangibile, di più reale  mentre l’ansia?

L’ansia è diversa dalla paura perché si pone l’obbiettivo di affrontare una preoccupazione sulla verificabilità e sull’affrontabilità di un evento futuro,  ma anche se faticose da sperimentare  e da tollerare ansia e paura non sono sensazioni negative, ma hanno un ruolo adattivo.

L’ansia ci aiuta ad individuare   minacce future, e in un ipotetico scenario ci aiuta  premunirci contro di esse progettando le strategie che ci aiuteranno ad affrontare la situazione particolarmente temuta.

Quando sperimentiamo un giusto livello di ansia che rimane nella nostra finestra di tolleranza, questo stato ci permette di essere più performanti, perché produce un effetto di ottimizzazione delle risorse psico-fisiche della persona. Tuttavia nell’uomo, ma anche negli animali, accade che l’ansia superi soglia  di tolleranza, quando è eccessiva anziché ottimizzare le risorse psicofisiche, tende a bloccare l’individuo fino a trasformarsi in panico, diventando quindi patologica perché   la reazione viene generalizzata anche a situazioni neutre, che in realtà non costituiscono affatto una minaccia. Quindi a questo punto usciamo dall’ansia fisiologica ed entriamo nel campo dell’ansia patologica, che va affrontata dal punto di vista clinico e psicoterapeutico

Dottoressa Trivelli in sostanza l’ansia mantenuta a livelli diremmo “normali”, è un’ottima compagna, sollecita le nostre capacità psico-fisiche, ci dà una spinta in più nella concentrazione e nell’affrontare situazioni di lavoro, di studio o di vita quotidiana.

Quando invece per vari motivi, l’ansia supera la soglia di tolleranza allora invece di essere una sollecitazione diventa un blocco che condiziona tutta la nostra vita. Quindi non riusciamo più ad affrontare neanche le minime difficoltà, anzi come dice lei stessa anche le situazioni apparentemente neutre e innocue diventano ostacoli insormontabili.

Alla prossima tappa del nostro viaggio nel “pianeta ansia”.

Articolo di Adriana Cigni

 

 Dottoressa Trivelli
  Via Giacomo Bove 16  TORINO
[email protected]
+39 3489271632
[email protected]

 

 

Gestione dell’ansia. Ansia e respirazione. Incontri con la Dottoressa Tagliabue

Ansia  e respirazione.

Dottoressa Tagliabue è un argomento che credo interessi molti lettori. Chi di noi non ha mai vissuto una situazione di grande stress? Vediamo come il binomio ansia -respirazione sia molto legato.

Quando parliamo d’ansia dobbiamo necessariamente parlare di RESPIRAZIONE:   quando ci troviamo in una  situazione di stress  elevato, quando ad esempio il livello di ansia supera la soglia di tolleranza,  anche i gesti quotidiani  e involontari come il respirare si modificano.  In particolare può capitare di sperimentare tachicardia, affanno e una reale difficoltà a respirare, potremmo dire: “ci  manca l’aria”.

 

Mi permetto di intervenire perché conosco bene la sgradevole sensazione della mancanza d’aria, della difficoltà a compensare battito cardiaco e respirazione. Ricordo benissimo il giorno in cui ho deciso che dovevo fare qualcosa, ero per strada e ad un certo momento ho pensato di non riuscire più a riprendere il ritmo normale. Consiglio vivamente a chi vive questa situazione di fare qualcosa, di agire, cosa bisogna fare Dottoressa?

Se noi riusciamo ad agire repentinamente per ripristinare una respirazione controllata, possiamo riportare il battito cardiaco e quindi il ritmo della respirazione sotto controllo e di conseguenza anche l’ossigenazione. Esiste una tecnica immediata adatta al controllo e alla gestione dell’ansia: si parla proprio di tecnica di respirazione controllata.

È un esercizio da eseguire almeno 5 volte nell’arco della giornata e consiste dapprima nel fare un respiro profondo e poi 5 secondi di apnea e successivamente attuare 10 respirazioni controllate, ossia effettuando le consuete espirazioni ed inspirazione seguendo un conteggio.  Mi spiego meglio: fare una inspirazione contando mentalmente 1001, 1002 , 1003 e poi espirare proseguendo il conteggio mentale 1004 1005 1006. Così il respiro completo controllato durerà 6 secondi e in un minuto si effettueranno 10 respirazioni.

Dottoressa so che descrivere ciò che lei insegna nella pratica, soprattutto trattandosi di respirazione, è molto difficile, avendo il soggetto davanti lei sicuramente può far comprendere come controllare il respiro ma le chiedo ugualmente di spiegarci meglio cosa si dovrebbe fare nei momenti in cui ci sembra che il cuore batta all’impazzata e la respirazione è difficoltosa.

Innanzitutto quando si riconosce di trovarsi in una situazione di affanno dovuta ad uno stato di forte ansia, la prima cosa da fare è mettersi in una posizione di sicurezza interrompendo immediatamente  qualsiasi attività nella quale si è impegnati, cioè ad esempio appoggiarsi ad una parete, mettersi seduto, fermare l’auto se si sta guidando. Successivamente concentrarsi sulla respirazione e fare un respiro profondo (rumoroso e con una espirazione lunga) e in ultimo inspirare ed espirare 10 volte seguendo il conteggio da 1001 a 1006, cioè in 6 secondi.

È una tecnica alla quale possono ricorrere tutti nel momento in cui ne hanno bisogno e permette anche di avere una maggiore consapevolezza del proprio corpo, del  modo di essere e quindi di vivere. È uno strumento rapido ed efficace, soprattutto nelle emergenze come ad esempio attacchi di panico e può anche sostituire le terapie ansiolitiche farmacologiche.

Articolo di Adriana Cigni

 

Dottoressa Daniela Tagliabue

Daniela Tagliabue cel 340-7712729

[email protected]

sede di Cesano Maderno via Valgardena 3

sede di Milano via Zurigo 28 – piazza Wagner 2

 

GESTIONE DELL’ANSIA, incontri con la Dottoressa Daniela Tagliabue

GESTIONE DELL’ANSIA, incontri con la Dottoressa Daniela Tagliabue

Questo sarà il primo articolo che ci introdurrà nel tema della gestione dell’ansia.

TRAINING AUTOGENO (TA)

Tutti ne parlano, quanti sanno gestirla?

“L’ansia è uno status normale della nostra condotta, se controllata e tenuta negli standard accettabili ci aiuta  a gestire le nuove situazioni e i cambiamenti, ma quando l’ansia supera la soglia al punto da bloccare le nostre azioni e / o provocare un vero proprio malessere  (provocando ad esempio paura, sudorazione, tachicardia, senso di soffocamento, problemi di respirazione) allora è necessario correre ai ripari, prima che questi sintomi si cronicizzino o si trasformino in veri e propri disturbi  “

Ho chiesto quindi alla Dottoressa Tagliabue quali sono le tecniche che possono aiutarci a gestire l’ansia.

Ci sono diverse tecniche che hanno come obiettivo la gestione e l’abbassamento dell’ansia, comincerei parlandovi del TRAINING AUTOGENO (T.A.).

Il training autogeno è una delle tecniche di rilassamento più diffusa e praticata. È finalizzata proprio al recupero energetico e mentale,ad eliminare l’ansia, l’insonnia e lo stress. Personalmente lo considero il metodo ideale per potenziare il benessere psico-fisico e tenere in allenamento mente e corpo, perché si lavora in contemporanea su entrambi.

Ci può spiegare meglio in cosa consiste e a chi è rivolto?

È una tecnica di autodistensione che contribuisce efficacemente all’equilibrio psicofisico: è un metodo di rilassamento che coinvolge la persona proprio nel suo complesso ed è composta da particolari esercizi che devono essere appresi in modo graduale ed essere attivati con un allenamento costante.

Infatti proprio attraverso l’allenamento=training si può raggiungere uno stato mentale che si genera da sé= autogeno. Più ci si allena, più questo stato mentale di rilassamento si sviluppa e favorisce sia  l’autodistensione sia la normalizzazione delle funzioni fisiche e psichiche e sicuramente aiuta ad avere una maggior conoscenza del funzionamento del proprio corpo.

Si rivolge principalmente agli adulti, ma può essere praticato anche con gli adolescenti. È alla portata tutti, perché è semplice da imparare ed è proprio indirizzato a coloro che devono affrontare o risolvere sintomatologie di origine psicosomatica, sciogliere ansia e paure, e sentono l’esigenza di migliorare la propria salute e aumentare il benessere psicofisico.

In particolare, a cosa serve?

I benefici del training autogeno sono molteplici e a diversi livelli: fisico, psicologico, comportamentale. Si ha la possibilità di raggiungere in pochi secondi uno stato di calma e di ridurre il livello di tensione accumulato. In particolare il T.A. è utile per

  • abbassare i livelli di ansia generalizzata;
  • potenziare le capacità di recupero dell’energia e aumentare i livelli di energia;
  • migliorare la capacità di addormentarsi facilmente, utile per chi ha problemi di insonnia e favorisce il ripristino ciclo sonno-veglia;
  • riduzione della percezione delle sensazioni dolorose, ad esempio emicrania e cefalea ed è anche utilizzato con successo nella preparazione al parto.
  • migliorare la capacità di autocontrollo emotivo di fronte ad eventi stressanti, perché una caratteristica del training autogeno è che possiamo metterlo in atto più o meno ovunque e nel momento in cui ci accorgiamo che e siamo in balia di un evento stressante, possiamo usufruirne e quindi miglioriamo le nostre capacità.
  • distaccarsi momentaneamente dai problemi contingenti e poterli vedere da un altro punto di vista (in questo è molto simile alla mindfulness (ne tratteremo in un prossimo articolo, nota di Adri)

Ultimo, ma non meno importante, il potenziamento delle funzioni mentali, perché è stato verificato che il T.A. aumenta la capacità di concentrazione e la memoria, perché abbassando l’ansia si recuperanole energie e a livello mentale.

Dottoressa Tagliabue lei effettua corsi di training autogeno?

Sì, ormai da diversi anni conduco dei corsi individuali e di gruppo,  quest’ultima modalità è particolarmente interessante perché diventa anche un’esperienza completa in quanto oltre al coinvolgimento individuale ci si relaziona e ci si confronta.

Ma quando è nato il training autogeno?

Il training autogeno nasce negli anni ’30 da Johannes Heinrich Schultz un medico neurologotedesco, che mise a punto questa tecnica con l’obiettivo di favorire il rilassamento totale della mente e del corpo.

È composta da una serie di esercizi che devono essere appresi ed eseguiti in ordine perché ognuno ha uno scopo preciso, il primo, l’esercizio della calma, come base di rilassamento, poi quello della pesantezza, del calore, quello del cuore, del respiro, del plesso solare e in ultimo della fronte fresca

Ci si concentra su una parte del corpo differente per ogni tappa e si lavora per rilassarla. In questa pratica la respirazione ha un ruolo fondamentale proprio perché si agisce sui muscoli ed è necessario allenarsi seguendo l’esatta successione di tappe, perché solo in questo modo si può arrivare ad un livello massimo di rilassamento che genera energia e aiuta ad abbassare il livello di ansia e di stress.

Allora Dottoressa riassumendo: per praticare il training autogeno dobbiamo seguire un corso, perché è necessario avere una “guida” che ci insegni la pratica e le varie tappe. Ma quanto tempo ci vuole e poi una volta finito i corso come possiamo utilizzare quello che abbiamo imparato?

Per imparare questa tecnica è necessario seguire un ciclo d’incontri (da 5 a 8) durante i quali e al termine del percorso è importante continuare ad allenarsi. È fondamentale mantenere l’ordine delle tappe perché l’una è propedeutica all’altra, la loro successione serve ad arrivare ad un determinato stadio di rilassamento. Più ci alleniamo,più impariamo a metterlo in pratica nella nostra vita quotidiana, per superare gli stress legati alla routine. Per esempio io lo consiglio sempre a chi ha qualche problema a viaggiare in metropolitana o a stare in luoghi chiusi, si può applicare subito ovunque, nessuno se ne accorge ed è molto efficace.

Ma Dottoressa davvero possiamo utilizzarla dove vogliamo, il training autogeno non si pratica distesi? Com’è possibile che nessuno se ne accorga?

La posizione tipica è quella supina ovviamente, ed la posizione prescelta in cui imparare il metodo del T.A.,  ma si può fare anche seduti. Infatti, una volta imparata la pratica e quindiuna volta diventati esperti, possiamo applicarla in ogni luogo quando ne abbiamo bisogno.

Tutte le immagini sono prese dal web

Articolo di Adriana Cigni

Per informazioni sui prossimi incontri di T.A. o per contattarmi:

Dottoressa Daniela Tagliabue

Daniela Tagliabue cel 340-7712729

[email protected]

sede di Cesano Maderno via Valgardena 3

sede di Milano via Zurigo 28 – piazza Wagner 2

Conversazioni con la Dottoressa Cipriano: chiedere aiuto non è mai un atto di impotenza ma di responsabilità.

Forse è il caso che ti fai aiutare,

forse dovresti andare da uno psicologo”,

questa è la frase che a volte abbiamo detto, a volte ci siamo sentiti dire.  Qual è la reazione a questo consiglio?

  • Non sono mica matto/a!
  • Non ho bisogno di nessuno, risolvo tutto da solo/a.
  • E poi col tempo tutto si risolve…
  • E che bisogna fare, non c’è soluzione.

Le risposte sono frutto di pregiudizi assurdi che ancora nutrono l’idea che chi va dallo psicologo sia pazzo da legare;

Derivano da un senso di autosufficienza: non si accettano i limiti e il bisogno di aiuto, come se chiedere aiuto fosse sinonimo di debolezza.

Sono anche frutto dell’illusione che il tempo cancelli tutto, mentre spesso il tempo diventa come un tappeto sotto il quale si nasconde la polvere, alla fine diventa una montagna invalicabile.

Il senso di rassegnazione, le cose vanno così, si deve soffrire.

Dottoressa Cipriano cosa possiamo rispondere alla rassegnazione, alla diffidenza e anche alla richiesta di risposte  immediate?

È impossibile dare una risposta netta, precisa “ la sua terapia durerà tot tempo!” Non si può prevedere quanto durerà il lavoro fatto insieme, perché occorre considerare diversi fattori, per esempio se la persona è realmente motivata, se sia venuta da me realmente intenzionata a seguire un percorso e quanto sia forte la sua resistenza al cambiamento; altro elemento importante è la complessità della problematica che non è possibile valutare al primo incontro.

Quando una persona decide di consultare uno psicologo ha già fatto un passo nella consapevolezza e nella cura di sé: si è assunto la  responsabilità della propria vita. Ha preso in mano la propria vita con l’intenzione di agire per cambiarla, senza aspettare che sia gli altri, la famiglia, il compagno lo facciano per lei , è nel circuito della propositività, del possibile, dell’autonomia.

Chiedere aiuto non è mai un atto di impotenza ma di responsabilità.

 

 

 

 

 

 

 

 

Dottoressa molti pensano che l’analisi procuri dipendenza e hanno paura che possa distruggere la vita presente, gli affetti, che possa mettere in discussione i loro rapporti con la famiglia, il marito, la moglie, i figli cosa può rispondere come rassicurare?

Molti  pensano che con il tempo si superi tutto, il tempo inteso come panacea per guarire ogni male questa è una convinzione molto comune e anche molto sbagliata.

Quando ci sono  questioni emotive, delle ferite psicologiche avviene proprio il contrario, le cose non vanno “ a posto da sole”, anzi non c’è alcuna azione dinamica: il tempo lascia le cose ferme.  Se una persona ha  delle cose irrisolte che la fanno star male ogni volta che emergono, non le risolve  mettendole in stand by,  restano e anche se non se ne accorge, continuano  a condizionare la vita, i comportamenti, perché non sono mai state elaborale. Il tempo cronicizza, non cancella.

Uno dei motivi per il quali mi sono realmente appassionata all’EMDR è stato proprio il fatto che questo orientamento riconosce la capacità di autoguarigione del cervello. Se ci pensiamo anche il nostro corpo ha questa capacità, quando siamo attaccati da un virus il corpo automaticamente aumenta la temperatura per distruggere il virus, quindi fa di tutto per riportare tutte le funzioni alla situazione iniziale equilibrata, sana, questo è il compito del sistema immunitario.

Ma anche la mente funziona così! Quante volte la nostra mente si riempie di pensieri negativi, ripercorrendo i  ricordi che ci fanno ancora molto male, perché succede? Perché questa ripetitività? Perché cerca continuamente  di risolverli ! Sono tentativi di  autoguarigione che non vanno a buon fine perché quell’evento probabilmente è stato talmente stressante o traumatico da interrompere il processo di elaborazione. Ecco perché a questo punto  la psicoterapia integrata con l’EMDR, può riattivare quel principio di autoguarigione, e la persona si renderà conto che è la sua mente che risolve il problema, è la mente che riuscirà a portarlo verso  la guarigione e questo che un grande riconoscimento dell’autonomia personale che è in totale contrapposizione con l’idea che la psicoterapia crea dipendenza, si mette in luce questo meccanismo di grande capacità che ha la mente . Tutto il non detto , i segreti familiari creano tantissima sofferenza interiore, è necessario dire, liberarsi, lasciare andare.

 

Tutte le immagini sono state prese nel WEB

 Articolo di Adriana Cigni
Dottoressa Paola Cipriano riceve
in Viale Ungheria, 28
20138 Milano
Zona Milano Sud, Corvetto, Corso Lodi.
Santa Giulia
Milano
Zona Rogoredo
Telefono:
344 340.06.16       mail:   [email protected]

“Il vero sapere è dentro il paziente” Dottoressa Paola Cipriano

È ormai chiaro che il mondo della Psicoterapia mi interessa molto, ho anche la fortuna (non credo sia un caso!)  di conoscere molti/e Psicoterapeuti/e che mi onorano della loro amicizia. Grazie a loro sto esplorando e sviluppando tematiche e argomenti che possono interessare non solo me e la mia crescita personale, ma un po’ tutti coloro che leggono i miei articoli.

Oggi vi presento la Dottoressa Paola Cipriano, io e la Dottoressa ci conosciamo virtualmente e telefonicamente da qualche anno, non ci siamo mai viste ma l’empatia, la simpatia e la mia sana curiosità sul suo lavoro sono scattate subito, con lei svilupperò temi che forse fino ad oggi non ho mai preso veramente in considerazione: quelli riguardanti la psicologia perinatale.

È un viaggio molto interessante parleremo di futuri genitori, o come dice la Dottoressa “del momento in cui il bambino è pensato”,  di gravidanze, di post parto, affronteremo anche temi difficili come il lutto. Ma oggi mi limiterò a presentarla.

D. – Dottoressa Cipriano qual è il suo orientamento terapeutico?

Il mio modello di riferimento è la psicoterapia ad orientamento psicoanalitico relazionale, integrato con la tecnica EMDR.

In questo tipo di psicoterapia si lavora sulla relazione, si pone il focus sulla relazione, su quello che accade tra il terapeuta e il paziente. È inevitabile che all’interno della relazione con il paziente, il terapeuta sia coinvolto, che si metta in gioco come il paziente, ma sia chiaro non allo stesso modo, la relazione ovviamente non è mai simmetrica, il terapeuta è e rimane l’esperto.

Per poter fare un esempio pratico potrei dire che se lo strumento di lavoro del chirurgo è il bisturi (che fra l’altro mette anche il suo modo di operare, modus operandi, che sarà sempre diverso da un altro), lo strumento di lavoro dello psicoterapeuta è sé stesso.

D. – Dottoressa ci spieghi meglio questo concetto.

Per fare questo lavoro ho dovuto seguire un percorso di formazione, un percorso di terapia che mi ha resa consapevole di tutte le mie parti (emozioni, personalità, individualità ecc.), e mi ha dato gli strumenti giusti per poter coinvolgere queste parti nella relazione col paziente, senza che ci siano interferenze negative o disfunzionali.

Io dico sempre al paziente:

Io non ne so più di lei su sé stesso, ma è lei che ne sa di più, il mio obiettivo è aiutarla a tirar fuori quelle consapevolezza e quelle risorse che lei non vede o non riesce a ricontattare in questo momento. Il vero sapere è dentro il paziente.

 D. – Per alcune persone è difficile “guardarsi dentro”, scavare in sé stessi, nel passato, andare a cercare le ragioni del loro malessere, del loro disagio. Preferiscono non andare oltre la propria sofferenza alla quale si sono abituati, che considerano quasi rassicurante, hanno paura di scoprire verità che possano distruggere o rovinare i rapporti sia familiari, sia di coppia. È difficile affrontare a viso aperto la verità, anche se si eviterebbe tanta sofferenza.

Cosa direbbe a queste persone?

La Persona che viene da me è un soggetto responsabile, libero e portatore di risorse e possibilità. Qualcuno ha detto che nessun uomo è un’isola ed è vero, ciò che siamo, quello che viviamo oggi dipende dalla nostra storia personale, dalle relazioni che abbiamo costruito con le nostre prime figure di riferimento e dal nostro personale modo di filtrare tutte le esperienze che abbiamo incontrato nel nostro cammino.  Quando iniziano a manifestarsi sintomi psicologici come attacchi di panico, fobie pensieri ossessivi e ansia vuol dire che la parte più profonda di noi ci sta avvertendo, è un campanello d’allarme, un grido di aiuto interiore, la prova che stiamo soffrendo e quella parte profonda bisogna ascoltarla, farla uscire allo scoperto e prenderne cura. Ecco cosa posso rispondere a queste persone: il sintomo non dovrebbe essere considerato come una maledizione ma come un’opportunità di crescita personale. Se ci si prende cura della propria sofferenza si scopriranno risorse e tesori inestimabili.

Da tempo integro al mio lavoro anche la tecnica dell’EMDR che  permette di dare la giusta importanza anche agli eventi oggettivi che ha vissuto la persona nella sua vita.  A volte ci portiamo dietro problematiche che non sono veramente nostre, disagi e sofferenze e anche eventi traumatici, segreti che si tramandano da genitori e figli,  con l’EMDR si interrompono queste  catene transgenerazionali,si riesce a risolvere in maniera profonda  quegli aspetti traumatici che hanno “attaccato” la sicurezza  di base del nostro sé , e grazie a questa tecnica è  possibile lasciare il passato nel passato e  vivere una vita con le proprio risorse e con maggior libertà rispetto alle ferite del passato

L’EMDR permette di elaborare nel profondo i ricordi traumatici coinvolgendo anche il corpo e le sue sensazioni, favorendo l’integrazione di tutte le componenti del nostro mondo interno: pensieri, emozioni e sensazioni corporee.

D. – So che lei è anche specializzata in psicologia perinatale e poiché per me è un argomento del tutto nuovo, sono veramente felice di poter iniziare con lei un viaggio molto importante che coinvolge sicuramente entrambi i genitori, ma forse ancor più, se mi è concesso un particolare interesse come donna e madre, coinvolge moltissimo il mondo femminile.

Per ora non entriamo nello specifico, come ho detto questa è solo la sua presentazione, in modo che il nostro pubblico sappia di chi stiamo parlando e chi svilupperà i vari argomenti.

Da cosa nasce questo interesse per la psicologia perinatale?

Una donna in gravidanza non è una donna “nuova” che nasce il giorno in cui scopre di essere incinta e diventa “donna in gravidanza”, è una persona, è una  donna che si porta già dentro una sorta di fatica personale, la propria storia di donna e di  figlia,  capita che tutte queste componenti e le  ferite antiche si possano riattivare con la gravidanza e la donna è sì contenta del proprio stato, ma può anche provare altri sentimenti. La nostra società non prende in considerazione, non legittima quest’ambivalenza , facendo sentire spesso le mamme “sbagliate”, basta guardare la pubblicità,  i mass-media , spesso anche il giudizio di altre mamme, tutti si aspettano che la futura mamma sia SEMPRE E COMUNQUE felice, serena .

Ma non si è mai SOLO felici nella gravidanza, si possono provare vari sentimenti : di nostalgia, di malinconia e di fatica,  dubbi, paure, senso di inadeguatezza. Questa parte meno luminosa della gravidanza, questa parte che molte donne si vergognano di far emergere,  per timore del giudizio, mi ha invece stimolata ad approfondire l’area della psicologia perinatale, per contribuire a svilupparla e ampliarla con il mio pensiero . Il mio obiettivo è quello di far venire “alla luce”  (la parte non luminosa esiste e non deve essere nascosta) una visione un po’ più realistica della gravidanza, meno idealizzata e più vicina alle donne , con il mio lavoro e la mia ricerca cerco di  rendere legittima anche la parte non espressa e più faticosa . Incontrando le mamme e ascoltandole tocco da vicino questa discrepanza tra quello che vivono, e quello che la società si aspetta che siano.

Ho così fondato due associazioni, iniziando a collaborare con servizi territoriali di Milano, occupandomi di sostegno in gravidanza, nel post parto e alla coppia genitoriale. Incontrando molte mamme in difficoltà mi sono specializzata anche nella cura della depressione post parto e nella risoluzione del trauma da parto. Proprio per questo nel 2014 ho fondato Asipp-Associazione scientifica italiana psicologia perinatale (www.asipp.it) con la quale mi occupo di formazione per operatori del settore materno infantile conducendo lezioni in corsi di alta formazione e master e interventi di prevenzione, sostegno o psicoterapia per donne e mamme. E sono socia fondatrice di Mei-Mamma e io (www.mammaeio.it) associazione che offre sostegno alla maternità. Conduco gruppi mamma bambino e spazi allattamento oltre che corsi di massaggio infantile.  Sono membro dell’associazione EMDR Italia poiché specializzata nel trattamento dei traumi e del lutto attraverso la tecnica Emdr.

D.- Dottoressa ora le faccio una domanda che pongo sempre, “cosa l’ha spinta a scegliere questa professione?” Sembra una domanda banale ma a mio avviso non lo è, credo che sia un lavoro difficile che coinvolga molto la persona e sono convinta che dietro questa scelta ci siano sempre motivazioni particolari.

Si sceglie una strada, un percorso di vita, una professione per le ragioni più diverse: io ho scelto di diventare psicoterapeuta perché posso tranquillamente affermare che la psicoterapia mi ha salvato la vita. All’età di 18 anni ho sofferto di attacchi di panico, sono andata in terapia, gli attacchi di panico passarono dopo pochi mesi, la terapia è durata anni.

Durante questi anni ho compreso che la comparsa degli attacchi aveva un senso, uno scopo, non erano una disgrazia. Il mio stato di disagio era una delle cose più sane che la mente potesse escogitare in quel momento, era un’opportunità, un segnale, l’ansia arrivava per portare un messaggio. Avevo la possibilità di decifrarlo con l’aiuto di uno psicoterapeuta, da sola non ce l’avrei fatta.

E ci sono riuscita.

Per questo ho deciso che quella sarebbe stata la mia strada.

 

La ringrazio Dottoressa Cipriano so benissimo questo articolo ci dà  solo un’idea del suo lavoro, credo che in futuro potremo sviluppare tantissime tematiche che qui abbiamo solo accennato.

Credo che sia proprio il caso di dire un “a presto”!

Articolo di Adriana Cigni

La dottoressa Paola Cipriano, ha il suo studio a Milano, zona Santa Giulia Rogoredo e Viale Ungheria 28.

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Mutismo selettivo: conosciamolo meglio

Intervista alla Dottoressa Federica Trivelli

Ho già scritto alcuni articoli sul Mutismo Selettivo su Your Edu Action, li ho scritti come persona che si occupa di questo disturbo da molti anni, come traduttrice, editrice e come organizzatrice di Formazioni. Ho sempre specificato che tutte le informazioni e i consigli che diffondo sono il “frutto” di tutto quello che ho imparato dalle Psicoterapeute con le quali ho l’onore di collaborare. Ora credo sia arrivato il momento di approfondire il tema del Mutismo Selettivo, stavolta però intervistando direttamente gli esperti e poiché l’argomento è vastissimo ne parleremo in una serie di articoli. continua su

http://www.youreduaction.it/mutismo-selettivo-questo-sconosciuto/

 

Mutismo selettivo B.E.S. e P.D.P.

 Per la diagnosi di Mutismo Selettivo il P.D.P. non è obbligatorio ma lo ritengo uno strumento veramente importante, una grande opportunità soprattutto per i bambini, perché nel momento in cui viene redatto, vengono stilate tutte quelle modalità operative da attuare in classe, per favorire il benessere del bambino e per aiutarlo a progredire. Ad esempio, ai fini della valutazione possono essere introdotte interrogazioni scritte al posto di quelle orali; può essere introdotto l’uso delle registrazioni; si può dispensare il bambino da prove a tempo; si possono evitare domande troppo aperte o anche dare delle indicazioni molto dettagliate e verificare che la consegna sia stata compresa, perché questi bambini non riescono a chiedere delle spiegazioni. Un’altra modalità operativa efficace è l’introduzione di prove con una gradualità nella difficoltà, detta anche “partenza facilitata”, inserire un esempio nei primi esercizi in modo che possano avere un modello di riferimento. E nelle valutazioni di fine ciclo consentire l’utilizzo del Power Point, con la voce registrata.

continua su

http://www.youreduaction.it/piano-didattico-personalizzato-mutismo-selettivo/

 

Mutismo selettivo: quale terapia?

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D: Dottoressa Gorla, parte dei nostri lettori sono genitori “assetati” di consigli e informazioni, credo che quest’ultimo concetto da lei sviluppato sia fondamentale: muoversi, attivarsi, il mutismo selettivo non si risolve lasciando le cose come stanno “tanto poi col tempo parlerà”. Credo che sia un sollievo sapere che si possa agire. Ora il passo successivo immagino sia: i genitori le telefonano e fissano un appuntamento, ci guidi nelle prossime fasi.

Io lavoro in questo modo: durante il primo appuntamento incontro solo i genitori e inizio a fare un inquadramento diagnostico; raccolgo tutti i racconti e le descrizioni pertinenti al bambino, ma anche elementi che riguardano loro, il loro vissuto d’ansia, della famiglia allargata, ricostruisco un po’ la loro storia familiare, che posizione ricopre loro figlio nel sistema e il ruolo del suo silenzio.

continua su http://www.youreduaction.it/terapia-diretta-indiretti-bambini-mutismo-selettivo/

Mutismo selettivo e scuola

Intervista alla Dottoressa Federica Trivelli

Questo è un concetto molto interessante, infatti mi capita spesso di ricevere mail e messaggi di genitori e/o insegnanti che non riescono a comprendere come mai il bambino parli appena varcata la soglia della classe, a mensa, oppure addirittura con una compagna solo nel cortile ma non in classe. Che strategie devono attuare gli insegnanti per aiutare i bambini?

Ci sono diverse strategie che gli insegnanti possono mettere in atto per aiutare i bambini ad abbassare i livelli d’ansia e per far uscire le parole, ma ci sono anche comportamenti che gli insegnanti devono evitare e forse potremmo iniziare da questi: continua su

http://www.youreduaction.it/migliori-consigli-esperta-superare-il-mutismo-selettivo/

Studio S.m.a.i.l. (Selectiv Mutism and Anxiety Italian Lab) conosciamoli meglio

https://ilblogdiadri.altervista.org/2018/01/larteterapia-ovvero-disegno-non-peculiarita-dei-bambini-riappropriamoci-della-nostra-creativita/

https://ilblogdiadri.altervista.org/2018/01/sintomo-visto-la-miglior-soluzione-possibile-trovata-dalla-persona-mantenere-equilibrio-sistema/

La dottoressa Daniela Tagliabue, una vera e propria professionista multitasking, ci spiega alcuni concetti importanti.

“…ho capito che questo, è l’unico lavoro che avrei voluto fare.” Dottoressa Federica Trivelli Psicoterapeuta a Torino

La dottoressa Daniela Tagliabue, una vera e propria professionista multitasking, ci spiega alcuni concetti importanti.

Dottoressa Tagliabue continuo con lei la serie di interviste che aiutano me e i lettori a comprendere meglio il mondo della Psicoterapia, lei è una Psicologa Psicoterapeuta a quale approccio terapeutico fa riferimento?

Si, io sono Psicologa Psicoterapeuta, la mia specializzazione è la Psicoterapia breve integrata, intendiamoci breve non è sinonimo di “corta” ma di “focale”. Mi spiego meglio: questo tipo di psicoterapia si basa sul riconoscimento e sull’individuazione di un focus e la risoluzione di questo, sicuramente non è una psicoterapia che dura in maniera continuativa per tutta la vita, io la considero pratica e moderna.

Dottoressa cosa s’intende per focus e per integrata?

Per focus s’intende un momento di bisogno, di impasse del paziente, di difficoltà emotiva e si lavora per la sua risoluzione. Integrata perché si rifà al modello della psicoterapia breve post –freudiana dinamica e al modello di riferimento teorico della psicoterapia cognitivo comportamentale e infine al modello integrato secondo la teoria del ciclo di vita di Ericksonn. Senza entrare troppo nel dettaglio, questa pratica mi permette di effettuare una psicoterapia dinamica breve, o cognitivo comportamentale breve o una terapia integrata, a seconda della situazione della personalità del paziente e della fase del ciclo di vita che sta attraversando.

Per prima cosa cerco di individuare la problematica, il bisogno del paziente, quello che chiamo “focus”, circoscritto alla personalità del paziente; alla sua situazione in quel momento e alla fase del ciclo di vita e nella terapia posso utilizzare le tecniche appartenenti ai diversi orientamenti teorici, calibrandole a seconda del momento e dell’utilità. Io la ritengo una metodologia molto moderna e vincente perché mi permette di ritagliare, modellare sul paziente il tipo di terapia più adatta, senza rinchiuderlo e fissarlo in una pratica rigida e specifica. I primi incontri sono quelli che aiutano a riconoscere la problematica del paziente, il motivo per cui ha fatto ricorso alla Psicoterapia, per velocizzare i tempi si possono usare i test che danno un “fotografia” attuale del paziente e mi permettono di capirlo meglio,inoltre mi forniscono elementi essenziali per arrivare al focus  e per poterlo poi risolvere. È evidente che data la mia formazione ho scelto un tipo di psicoterapia che mettesse in risalto l’efficacia degli strumenti testistici. È una psicoterapia di tipo individuale ed è rivolta sia ai bambini, agli adolescenti che agli adulti.

Dottoressa Tagliabue come è nato l’interesse, possiamo definirla “passione”, per la psicoterapia? Cosa o chi l’ha spinta a svolgere questa professione? Lei lavora molto con la psicodiagnostica che utilizza i test, possiamo tranquillamente affermare che è un’ esperta in questo campo, ci racconti come è scaturita questa specifica.

Il mio interesse per la Psicoterapia è nato già dal liceo, infatti non ho avuto esitazioni e mi sono iscritta subito a Psicologia, ero spinta dalla passione per le relazioni, le dinamiche affettive e tutto quello che c’era dietro. Ovviamente ero anche attirata dalla prospettiva di poter aiutare persone in condizioni di disagio. Dopo diversi anni di studi, sono entrata nel mondo della testitica, grazie alla tesi sperimentale, per la laurea magistrale in Psicologia Clinica, con la quale ho contribuito alla standardizzazione del test TEMAS (Tell me a story). Un test proiettivo rivolto a bambini dai 6 agli 11 anni per l’analisi delle personalità e delle emozioni, un lavoro che mi ha appassionata, interessante e anche molto attuale perché questo strumento ha la caratteristica di essere multiculturale. Quindi da questo lavoro sul campo effettuato durante la tesi ho capito che dovevo sviluppare e perfezionare la mia passione per i test e infatti è diventato il mio ambito di lavoro: la psicodiagnostica e l’uso degli strumenti testistici. Ho perfezionato questo mio interesse con alcuni master e scuole di specializzazione perché il mio scopo era poter utilizzare differenti test sia cognitivi sia proiettivi. Solo per citarne alcuni:

le Scale Wechsler per la valutazione dell’intelligenza, WAIS (Wechsler adult intelligence scale) per adulti. WISC (Wechsler intelligence scale for children) per 6 – 16 anni e per i più piccoli sotto 6 anni WIPPSI.

 

 

Altri test cognitivi: le Matrici Progressive di Raven e il test TINV (test intelligenza non verbale). Alcuni test proiettivi per personalità : Blacky Pictures, TAT (Thematic apperception test) e il più famoso il test delle macchie di Rorschach.

La ringrazio Dottoressa Tagliabue credo che abbiamo materiale per tantissimi articoli che dovremo sicuramente sviluppare. In quali altri ambiti si sviluppa il suo lavoro?

Oltre alla psicoterapia vera e propria mi occupo anche di consulenze psicologiche, negli ultimi anni sto lavorando moltissimo sull’ansia, problematica dei nostri tempi che riguarda tutti, sia i bambini che gli adulti . Proprio rispetto all’ansia ho ampliato le mie competenze, non utilizzo solo la Psicoterapia, infatti, da circa 5-6 anni ho intrapreso un percorso di formazione nell’ambito delle tecniche  di rilassamento come il Training Autogeno e ora ricevo sia in sedute individuali che collettive (è già in programma un altro articolo su questo argomento!). Poi ovviamente mi occupo di psicodiagnostica con i test che è veramente quello che potrei considerare il mio “pane quotidiano”, da test cognitivi di livello (quelli per intenderci che valutano il QI, il quoziente intellettive della persona) a test della personalità, anche i test della carta e matita e proiettivi.

Ci sono migliaia di test, io credo che non esista un test migliore di un altro; quello che rende efficace un test è la persona che sottopone il test al paziente, questo è  l’elemento più importante, più che buon test parlerei di buon diagnosta. Il buon testista deve essere sicuramente, preparato, specializzato nell’utilizzo, nell’ interpretazione, nell’analisi e nello scoring perché questa parte è rigorosamente scientifica, ma accanto a questo il “buon diagnosta” deve anche sapere quando, come e con chi utilizzare il test, deve avere ben preciso lo scopo. I test ampliano la conoscenza, possono darci tantissime informazioni, dipende da quello che cerchiamo e come lo cerchiamo!  È un modo molto veloce per entrare nel profondo del paziente, per tirar fuori non solo delle  problematiche, ma anche risorse che spesso neanche lui conosce, ma bisogna avere la capacità di interpretare i risultati del test.(La dottoressa Tagliabue è una fonte inesauribile di nuovi spunti! nota di Adriana).

Nella mia pratica quotidiana applico i principi dell’ Assessment (s’intende la valutazione globale della persona) in un ottica collaborativa: il test deve avere un carattere collaborativo, ossia il paziente non è una cavia, ma è il protagonista principale ed è coinvolto al 100%, non c‘è un testista che sta in alto e il paziente che sta in basso, la relazione deve essere collaborativa  e simmetrica, solo in questo modo riesco a lavorare con il paziente.

Altro argomento di cui mi occupo e che spero approfondiremo con altri articoli sono i D.S.A., i Disturbi Specifici dell’Apprendimento. Una tematica che negli ultimi anni è oggetto di moltissimi dibattiti e discussione e di grande attenzione.  C’è una legislazione a riguardo ed è la prima volta che una tematica del genere, abbia avuto un tale risalto all’interno delle scuole al punto da diventare l’oggetto di una legislazione scolastica. Se ne parla tanto ma forse non tutti ne conoscono veramente i particolari.

In Lombardia le ASL hanno decretato che per stabilire l’effettiva presenza di un disturbo dell’apprendimento occorre un’equipe multiprofessionale rappresentata da uno psicologo, uno neuropsichiatra infantile e un logopedista, e quindi io a Milano e nella provincia di Monza e Brianza  collaboro con vari gruppi di lavoro. Io non ho uno studio “mio”, preferisco il lavoro di squadra: la mia è una vera e propria scelta e filosofia di vita, è il mio modo  d’intendere il lavoro. Collaboro con tantissime figure professionali, mie colleghi, psicomotricisti, psichiatri, logopedisti, in vari studi sparsi tra Milano e Monza, per me lavorare è scambiare informazioni con altre discipline, conoscere diverse prospettive. Penso che questo renda sicuramente più complesso il mio lavoro, ma al contempo lo semplifichi, sicuramente lo arricchisca!

E per finire vorrei parlare di un’altra attività che è ultima  nel senso cronologico perchè è cominciata da poco, ma  non certo per importanza: insegno all’interno del corso “Esercitazioni pratiche guidate (EPG)”, all’Università Cattolica del Sacro Cuore  di  Milano, agli studenti del 3 anno della Facoltà di Scienze e Tecniche Psicologiche. Mi piace molto perché ho la possibilità di confrontarmi con le future generazione di psicologi e poi il fatto di lavorare nell’Università mi permette di  restare sempre aggiornata e al passo con le novità della mia professione.

Lei si occupa anche di Mutismo Selettivo (MS), non sono moltissimi gli Psicoterapeuti esperti di questo disturbo poco conosciuto, qual è stato il percorso che l’ha portata ad occuparsene?

Il mio incontro con il MS è stato casuale, nel 2012 ho incontrato la Dottoressa Claudia Gorla (psicoterapeuta massima esperta in Italia di MS) in situazioni extra- lavorative e da una piacevole conversazione ho scoperto che stava cercando un’esperta di testistica e psicodiagnostica nell’ambito del MS, così ho iniziato ad affiancarla, a collaborare con lei fino ad prendere in carico direttamente i pazienti.

Per quanto riguarda i bambini con MS  oltre  alla terapia pongo particolare attenzione anche l’impatto che ha l’ansia sul rendimento scolastico.

Lei sa che l’informazione sul Mutismo Selettivo è ancora insufficiente, non crede che sarebbe utile organizzare dei seminari in modo da avere un diretto contatto con i docenti e con i genitori?

Sicuramente! Il MS è una tematica purtroppo ancora poco conosciuta. A Milano è già in programma una Formazione il 3 marzo a cui prenderò parte.

Ma in una città così grande e in un hinterland così importante un solo seminario non potrà certo essere sufficiente, sollecitiamo le scuole a contattarci per invitarci a parlare di Mutismo Selettivo.

Per contattare la Dottoressa Tagliabue            

3407712729

Cesano Maderno, presso il centro Mediplus via Val Gardena 2

Milano,     Studio 3 in Piazza Wagner 3

Spazio Zurigo 28, in via Zurigo 28

Scrivere a

[email protected]

Per organizzare seminari sul Mutismo Selettivo e altri argomenti potete scrivere anche a me

[email protected]

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“…ho capito che questo, è l’unico lavoro che avrei voluto fare.” Dottoressa Federica Trivelli Psicoterapeuta a Torino

Le Autrici del libro. È arrivato il momento di conoscerli un po’ più a fondo. Potrà essere utile anche a voi sapere che c’è un riferimento importante nella vostra regione.

A volte siamo noi a sentire l’esigenza di rivolgerci ad uno Psicoterapeuta spesso per risolvere nodi emotivi, o per alleggerirci di retaggi familiari pesanti come macigni, oppure sono i nostri figli a vivere sulla propria pelle un disagio, un blocco e ci perdiamo nella ricerca di qualcuno che possa aiutarci e così scopriamo  quanto sia difficile districarsi nei diversi percorsi terapeutici, forse con questa serie di articoli riusciremo a fare un po’ di chiarezza.

Dottoressa Trivelli lei è una Psicoterapeuta Cognitivo-Evoluzionista può spiegarci cosa significa?

–Nell’ambito del cognitivismo clinico, la Psicoterapia Cognitivo Evoluzionista  coniuga lo studio dei rapporti fra emozione e pensiero con i principi dell’evoluzionismo, dell’etologia e delle neuroscienze.

In pratica sia nella strutturazione del disturbo che nella terapia, viene data molta importanza  non solo ai processi del pensiero, ai pensieri disfunzionali ecc.., ma anche alle emozioni e soprattutto, alle dinamiche relazionali operanti in tutti gli esseri umani fin dalla nascita.

Di particolare importanza risulta essere la relazione che si instaura precocemente tra madre e bambino , e poi bambino e caregivers principali perchè tali relazioni diventano i modelli sui quali le persone costruiscono tutte le successive relazioni con gli altri e anche con sé stessi.

Dottoressa ora parliamo un po’ di lei, quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta a intraprendere un percorso di studi per esercitare una così difficile professione?  

-Sono sempre stata molto interessata all’altro e incline all’ascolto e all’empatia. Nella mia vita, soprattutto nell’adolescenza, ho dovuto superare prove molto difficili e pesanti e questo ha fatto sì che ad un certo momento alle inclinazioni iniziali abbia affiancato l’idea di “ poterne fare qualcosa di tutta questa sofferenza a cui è esposto l’essere umano”.

In verità non posso dire che sia stata una scelta impulsiva e immediata, infatti dopo aver conseguito la maturità linguistica mi è sembrato “naturale” iscrivermi a Lingue, ma poi qualcosa è scattato dentro di me, e ho compreso che i miei interessi erano orientati verso la psicologia,e che quella era la strada da seguire!

Da quel momento non ho più avuto dubbi o ripensamenti, mano a mano che procedevo nello studio di questa disciplina mi convincevo sempre di più di aver fatto la scelta giusta, e oggi lo sono più che mai, posso tranquillamente affermare che questo è l’unico lavoro che avrei voluto fare.

Ora le pongo una domanda alla quale penso spesso quando incontro lei e le sue colleghe : ogni giorno nei vostri studi voi entrate in contatto con emozioni, dolori, disagi, blocchi, traumi gravissimi come abusi, violenze. Avete di fronte a voi persone che si liberano della loro sofferenza. Come fate ad affrontare tutto questo senza assorbire tutto questo, come fate a mantenere un sano distacco professionale?

-Il mio è un lavoro e come tale deve essere vissuto. Se assorbissi tutto sarei vulnerabile e non potrei esercitare correttamente la mia professione. Certo è inevitabile che alcune storie mi colpiscano più profondamente, ma se vogliamo essere terapeutici e contemporaneamente sopravvivere, è necessario imparare a mantenere la giusta distanza emotiva. Ci vuole tempo ed esperienza ma si impara e poi ci si deve circondare di colleghi che possano supportarci e aiutarci e anche colleghi/amici con cui condividere professione e sane risate!

Dottoressa Trivelli possiamo dire senza alcun dubbio che lei è stata, insieme alle  sue colleghe dello  Studio S.m.a.i.l., una delle “pioniere” in Italia  ad occuparsi di Mutismo Selettivo, c’è un motivo particolare che l’ha spinta a specializzarsi su questo disturbo poco conosciuto?

-In verità non c’è un motivo preciso, probabilmente sono stati vari fattori che mi hanno portato ad interessarmi al Mutismo Selettivo fra i quali molto ha contribuito per esempio il fatto di aver avuto un caso di un bambino con MS, poiché il bambino era piccolo seguivo i suoi genitori. Ma credo che il fattore più importante sia stato proprio il fatto che questo disturbo fosse poco conosciuto e studiato,  l’ho visto come una grande sfida, mi piace confrontarmi con questioni complesse e questo mi ha dato veramente la voglia di approfondire l’argomento.

Lei lavora in uno Studio a Torino, proprio per dare informazioni pratiche può dirci se i suoi pazienti sono per la maggior parte bambini, adolescenti o adulti. Ha una specificità?

-Sì lavoro a Torino e non ho una vera e propria specificità seguo bambini, adolescenti e adulti.

Riallacciamoci al Mutismo Selettivo spesso genitori e insegnanti non sanno a chi rivolgersi in caso di bambini con MS, le assicuro che io stessa ricevo richieste di informazioni da parte di genitori, insegnanti, dirigenti scolastici e Uffici scolastici, mi chiedono di organizzare Seminari a volte nell’ambito di una sola Scuola o un determinato Plesso scolastico, lei sarebbe  disponibile a curare dei seminari nella sua città, Torino?

Credo che sarebbe importante informare i nostri lettori che c’è un riferimento importante nella sua città.

La ringrazio Dottoressa Federica Trivelli per la sua disponibilità e a presto per altri interessanti articoli.

Per chi volesse contattare la Dottoressa Trivelli:

il suo Studio è a Torino in Via Duchessa Jolanda 7

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+39 3489271632

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Per richieste di Seminari nelle vostre scuole potete anche scrivere a me

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Caro Babbo Natale…

Caro Babbo Natale,

io credo che forse dovresti un po’ rinnovare  il tuo lavoro.

Certo io non sono nessuno per dare consigli per questo uso il “forse”.

So che sento un disagio, una mancanza di armonia. Ognuno di noi può dare al Natale il significato che vuole anche laico, la rinascita, il ricominciare, il chiudere un ciclo e aprirne un altro. E poi mio figlio è nato a Natale come non dargli un senso?

Per cui ti dico un po’ di cose…

Forse non dovresti più fare distinzione tra bimbi buoni e cattivi, tra quelli che se lo meritano e non se li meritano. Forse dovresti portare doni a quelli che non li hanno mai avuti, ai bambini nati in paesi in guerra e che non sanno cosa sia la pace, quei bambini lì conoscono solo il male, il sangue, la paura, la morte e gli occhi disperati dei loro genitori. Perché non c’è al mondo peggior dolore di non poter  salvare il proprio figlio. I doni portali a loro.

Oppure cambia.

Cambia il rito, l’abitudine, la tradizione.

Babbino caro,

tu sei sempre lì insieme alla Befana e noi vi siamo grati per la gioia , la capacità di sognare e di credere  all’impossibile, ma i tempi sono cambiati, anzi noi siamo cambiati. Abbiamo bisogno di un altro tipo regalo, tutti: grandi e piccini. Noi grandi soprattutto per poterli lasciare ai nostri figli, o diffonderli nel mondo. Non sono regali costosi ma si fa fatica a ritrovarli, nessuno li vende, o ce li insegnano o arrivano direttamente dal nostro cuore.

Più che di cose abbiamo bisogno di speranza, portaci tutti quei sentimenti  che sono patrimonio di tutti, laici e credenti, e che ci restituiscono la nostra umanità nel senso doppio del termine.

Sentimenti che abbiamo un po’ trascurato, riportaci la gioia di guardarci negli occhi e non attraverso uno schermo; portaci la pĭĕtās nel suo significato originario ( affetto, amicizia, dedizione, fedeltà, devozione, i genitori, gli amici, pietà filiale; abnegazione, rettitudine, senso del dovere; clemenza, benevolenza, indulgenza).

Sai i poveri ci sono sempre stati, e ci sono ancora e c’è qualcuno che cerca di nasconderli in questi giorni perché stonano un po’ con i luccichio delle luminarie e degli addobbi scintillanti. Porta anche il senso originario della compassione cum –  patior , comprendere la sofferenza altrui e non nel senso dispregiativo che con tempo gli abbiamo dato.  Babbo i poveri, quelli veri non sono solo i protagonisti delle favole, i poveri esistono, li possiamo incontrare sulle strade a dormire al freddo e al gelo  (come dice la canzone  “Tu scendi dalle stelle…”) oppure sono nelle case normali, hanno un lavoro precario o non ce l’hanno e fingono di condurre una vita normale anche se non sanno come fare per far fronte a tutte le incombenze.  Oppure sono sotto le bombe , o vivono repressi da regimi autoritari e crudeli. I poveri sono esseri umani , non polvere da nascondere sotto un tappeto. A loro e a noi porta la dignità, lavoro e speranza nel futuro.

Riportaci la capacità di amare, la tolleranza, l’empatia, l’amicizia, le risate , il divertimento sano, l’aria pulita, il rispetto per noi stessi, per gli altri e per l’ambiente e per la salute.

Questi sono i regali di cui abbiamo bisogno noi e le nuove generazioni.

Fai lavorare i lutins o elfi, o folletti che dir si voglia che sarà dura.

Adriana

A.A.A. Una storia di un ragazzino o di una ragazzina cercasi

Si leggono tante cose sugli adolescenti. Io che vivo un po’ sospesa tra il paese in cui risiedo e il mio, quello a cui appartengo per nascita e per radici, leggo, cerco di conoscere, informarmi e non assorbire solo la negatività, i pericoli, i rischi che una giovane persona può vivere oggi.
Ho un figlio adolescente devo credere in lui, devo capire. È difficile per me come per qualsiasi genitore, tutto quello vissuto prima sembra facile, eppure avevamo la responsabilità totale di una vita.
Oggi guardavo mio figlio, e pensavo che tutti i ragazzini della sua età vivono un momento delicatissimo, se si voltano indietro intravedono ancora l’infanzia, la grande protezione , i giochi, i viaggi, le vacanze , mamma e papà presenti, solidi, perfetti.
Dall’altra parte c’è l’indipendenza, la fatica  e il piacere di dover cominciare scegliere, il mondo, la scoperta di cose nuove belle, brutte, oscure, luminose. Mamma e papà non sono più perfetti e nemmeno immortali e non capiscono sempre tutto che provano, non anticipano più ogni minimo respiro. Sono altro da loro.
C’è la scoperta dell’amore per alcuni, per altri ancora no c’è l’amicizia come grande sentimento.
Se chiudo gli occhi io MI ricordo a 14 anni, perfettamente.Kandinsky "Arco e freccia"
L’adolescenza è una fase naturale della vita, non una patologia, è l’età in cui sono tesi come le frecce, come dice Gibran, pronti a  lanciarsi verso la vita. Non possono essere simili a noi ma possiamo ricordare come eravamo per comprenderli.
Sappiamo cosa c’è là fuori, ricordiamo come noi stessi siamo riusciti a camminare nella vita evitando (o meno) come in uno slalom i vari pericoli.
Se siamo qui, io a scrivere e voi a leggere vuol dire che ce l’abbiamo fatta. Non siamo guerrieri nel senso estremo della parola, o meglio siamo guerrieri armati di fantasia, di voglia di vivere e di sana curiosità e di quel minimo di amore per noi stessi che ci ha permesso di non gettarci in avventure senza ritorno.
Rappresentare la realtà è giusto, ma mettere il luce solo quello che c’è di inquietante, preoccupante, pericoloso tra i giovanissimi non credo che sia giusto. Non credo che sia la strada giusta. C’è un mondo non parallelo, ma qui presente, abitatissimo di ragazzini che vivono situazioni di quotidiana normalità,  che sembrano non esistere nell’immaginario mediatico. Io credo nella forza del messaggio positivo e so quanto possa essere incisivo. Ho contatti giornalieri con genitori e insegnanti conosco le difficoltà, le conosco benissimo. Non ho voglia di vendere libri che vadano a nutrire l’incertezza e la tristezza. Cerco una storia che parli di un ragazzino o una ragazzina  come tutti, che abbia gli occhi bene aperti sul mondo ma che non sia forzatamente sempre vittima, vorrei che si parlasse di bullismo che non è solo rappresentato dal compagno che ti picchia, o ti ricatta ma anche da quello che pratica un bullismo meno violento ma quotidiano, che ti chiede il foglio, la penna, che ti macchia la giacca col bianchetto (si usa da voi? Io vivo in Francia). Vorrei raccontare la storia di un ragazzino ironico e sensibile  che non sopravvive al suo tempo ma vive, combattendo la sua battaglia giornaliera.
Non è vero che tutte le storie a lieto fine sono irreali!
Che messaggio inviamo ai giovani, che non c’è speranza? Che si vive perennemente infelici?
Se qualcuno ha voglia di provare a scrivere una storia, anzi tante storie di un unico personaggio  A.G.Editions sarà felice di leggere la vostra proposta editoriale.
I vostri figli
I vostri figli non sono figli vostri… sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee.
Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni.
Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri.
Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.
L’Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suoi vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane.
Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo.

Articoli sul mutismo selettivo: genitori-collaborate- con – gli-insegnanti

Articoli sul mutismo selettivo: genitori-collaborate-gli-insegnanti

Ma mio figlio è allegro, chiacchierone, non si ferma un attimo, parla tutto il giorno”.

Bambini diversi in contesti diversi. La selettività del mutismo riguarda il contesto, l’ambiente, a casa si sente a suo agio, in famiglia l’ansia è a zero o quasi. Fuori ci sono gli estranei che pongono domande, a scuola l’ansia arriva al massimo. In ogni caso viene richiesta una prestazione, anche la più semplice come rispondere “presente” provoca uno stress. Continua a leggere su :

http://www.sguardidiconfine.com/mutismo-selettivo-nei-bimbi-genitori-collaborate-gli-insegnanti/

Articoli sul mutismo selettivo: Senza parole

Il silenzio intriga.
Il silenzio fa paura.
Il silenzio provoca.
Il silenzio invita alla sfida.
Volevo iniziare questo articolo in maniera diversa dal solito “Il Mutismo Selettivo è…”
e mi è venuto in mente di aprire con le emozioni, i sentimenti, di chi vive nell’universo
familiare e scolastico di un bambino o ragazzo che soffre di Mutismo Selettivo.
È indubbio che il silenzio destabilizza, colpevolizza, spaventa, oppure se viene
interpretato come una provocazione, irrita, induce all’insofferenza, alla punizione o
alla sfida “ti farò parlare io”. Continua a leggere su

http://web.mondodiluna.it/bacheca/tracce/senza-parole-cose-mutismo-selettivo/

Articoli sul mutismo selettivo: i genitori, le sorelle, i fratelli

Questa volta vorrei prendere in considerazione questo disturbo legato all’ansia da una prospettiva diversa. Quella di chi vive con un bambino, o con un adolescente che soffre di Mutismo Selettivo vale a dire i genitori, le sorelle, i fratelli.

Ho parlato con tanti genitori per cui ho una vasta gamma di esperienze da raccontare.

Primo impatto: inizio scuola dell’infanzia (a volte anche il nido ma probabilmente è difficile a quell’età diagnosticare il Mutismo Selettivo). Normalmente si viene convocati a scuola dopo un mese o due dall’inizio. continua a leggere:

http://www.youreduaction.it/paura-di-parlare-quando-le-parole-si-incastrano-nella-gola-dei-bambini/

Articoli sul mutismo selettivo: La scuola

Immaginiamo una classe. Una classe di scuola per l’infanzia o elementare. Ma anche una classe di scuola secondaria

C’è un’alunna là in fondo, ha una postura rigida, uno sguardo diverso dagli altri, a volte sembra un cucciolo smarrito, a volte i suoi occhi fissano il vuoto, altre volte ancora invece è attentissima e ascolta con interesse. Non interviene, non alza la mano, non partecipa, forse non ride nemmeno.

Sembra che le costi fatica aprire la bocca per produrre qualsiasi suono, perfino una risata.

Non parla con l’insegnante, non parla con i suoi compagni. Non le piace lo sport, la competizione, l’agonismo. Sembra che il suo unico fine sia rendersi invisibile.

Non è autistica, non ha alcun problema di tipo fisiologico-funzionale che le impedisca di parlare.

Continua a leggere su  http://www.youreduaction.it/bambini-con-mutismo-selettivo-errori-e-comportamenti-da-evitare-in-classe/

Raccolta di articoli sul mutismo selettivo: l’adolescenza

quando-mutismo-selettivo-oltrepassa-adolescenza/

“È difficile sentirsi come gli altri, fare le cose che fanno gli altri quando non si ha la voce per esprimersi: è difficile avere degli amici, uscire, andare al cinema. Un giorno anch’io avrò diritto alla felicità, vivrò come tutti gli altri. Sono una giovane donna che ha tante passioni (la danza, la pittura), dei sogni, una voglia di vita come tutte le ragazze della mia età. Vorrei essere indipendente, libera disinvolta e invece mi sento invisibile agli occhi del mondo

“Non so perché ma sono prigioniera di questo silenzio profondo e malsano, di questa paura di parlare che mi fa sentire sola e indifesa.

Quando devo parlare la mia voce si ferma, sale la paura, mi ritrovo chiusa in una bolla… Mi sento diversa, strana, diversa, diversa da tutti a volte mi sento frustrata ma anche arrabbiata, soffro e sono triste. Vorrei tanto parlare, rispondere alle vostre domande senza avere paura, senza dover scrivere le risposte anche per un sì o un no. È come se avessi dentro un mostro che mi trattiene e mi chiude in una scatola chiusa a chiave che non riesco ad aprire: ma dov’è questa chiave? Mi sento inutile.”

Chi parla è A. una ragazza francese, la conosco da tempo ho avuto il suo consenso per riportare le sue parole in questo articolo. Sono parole troppo pesanti per una giovane ragazza che dovrebbe vivere la vita ancora con leggerezza. Sono parole che evocano solitudine e una vita anacronistica rispetto alla propria età.”    CONTINUA LA LETTURA SU       http://www.youreduaction.it/quando-mutismo-selettivo-oltrepassa-adolescenza/

 

 

Cos’è il Mutismo Selettivo?

Il Mutismo Selettivo (in seguito MS) è un disturbo d’ansia dell’infanzia. Un bambino con MS, sebbene in casa o in contesti familiari riesca a parlare normalmente, non riesce farlo in altre situazioni nelle quali ci si aspetterebbe lo facesse. Ad esempio a scuola presenta difficoltà nell’iniziare spontaneamente la conversazione o nel rispondere alle domande poste dagli altri.

Il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali, quinta edizione, DSM-5, Raffaello Cortina Editore, 2013 e la “Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati” (ICD-10) descrivono l’incapacità di esprimersi liberamente come non dovuta a particolari deficit cognitivi o a immaturità del sistema linguistico, né ad inabilità legate al processo di articolazione ed espressione linguistica. L’anomalia interferisce con i risultati scolastici e con la comunicazione sociale. (da Senza parole – Bambini diversi in contesti diversi – mutismo selettivo -Libro pratico per genitori e insegnanti)