Il tempo delle vacanze per molti bambini e ragazzi è un tempo “proficuo” per vivere esperienze, socializzare, confrontarsi, proporsi in modo nuovo

 

Siamo a luglio, che si continui a lavorare, che si stia in vacanza in città o si parta, è comunque un periodo in cui le terapie o i percorsi intrapresi si mettono in modalità “PAUSA”.

Ho chiesto al Dottor Corbetta, arteterapista, come si vive questo momento di “interruzione”

In effetti questo è proprio il periodo in cui sospendiamo momentaneamente le sedute di Arteterapia in corso. Di solito sul finire dell’annualità o prima delle partenze per le ferie o nelle sospensioni per le feste, la frase che sento spesso ripetere da colleghi e operatori è: “dobbiamo sospendere proprio adesso, se ci fossero state ancora due o tre sedute … eravamo proprio al punto di svolta”. È una frase che direi anch’io!

Nelle sedute di Arteterapia mi capita di percepire il cambiamento, la modifica, la presa di consapevolezza del bambino o del ragazzo in seduta, proprio prima di una interruzione o fine di percorso (se si tratta delle scuole dove il numero di incontri è stabilita da un contratto firmato).

Dottor Corbetta le sue parole indicano una grande passione per il suo lavoro ma è ovvio che umanamente il periodo di pausa è salutare per tutti, anche per voi terapeuti. Voi siete a contatto con diverse problematiche, con il dolore, la sofferenza psichica di grandi e piccini, credo che sia necessaria una pausa “rigeneratrice”.

È proprio così! Nel corso della mia formazione, mi ha accompagnato un monito di una docente che diceva pressappoco che “noi non siamo i salvatori di nessuno”.

Mi sono ripetuto questa frase nel tempo, me la ripeto ogni giorno. Penso che sia fondamentale non pensare di essere onnipotenti soprattutto nel nostro lavoro di relazione profonda, di incontro e relazione con le persone, attraverso il quale entriamo in contatto con le emozioni, le fragilità, i punti di forza e i vissuti.

Il lavoro che svolgo è un lavoro di facilitazione rispetto a quanto succede all’interno del setting.

Cerco di condurre la persona o i gruppi con i quali interagisco, ad un’esperienza che possa essere interiorizzata ed esternalizzata.

Essere consapevoli che in un percorso noi non siamo gli attori ma i tecnici della scena, aiuta a vivere con estrema positività le pause.

Qual è quindi il suo modo di congedarsi dai suoi pazienti prima delle vacanze?

Per spiegare ai pazienti la sospensione del percorso, utilizzo prevalentemente due modalità:

  • Con i più grandi (i ragazzi della scuola secondaria e gli adolescenti): ripercorriamo il percorso attraverso le creazioni fatte (visibili in foto al computer). Con loro effettuo una verifica rispetto agli obiettivi che ci eravamo preposti, verifico l’andamento del percorso, gli obiettivi raggiunti e le nuove mete da raggiungere.
  • Con i bambini dell’asilo dell’infanzia e della scuola primaria, introducendo il tema delle vacanze, propongo un’opera artistica di chiusura di quanto si sta svolgendo, rimandando la continuazione del lavoro a settembre.

In questo modo riusciamo a mettere il percorso in standby, con la possibilità che esporteranno quanto acquisito all’interno del setting nel “qui ed ora”, all’esterno.

Il tempo delle vacanze per molti dei bambini e ragazzi che seguo è un tempo “proficuo” per vivere esperienze, socializzare, confrontarsi, proporsi in modo nuovo con chi non conoscono e sperimentare dinamiche differenti da quelle che vivono nei contesti del quotidiano.

Mi piace pensare che chi fa il nostro lavoro getti dei semi che poi germoglieranno con il proprio tempo e secondo i terreni che troveranno.

 

 

 

 

 

 

 

 

Le immagini sono prese dal web

 

 

 

Se qualcuno dei nostri lettori (genitori, ragazzi, adulti) volesse contattare il Dottor Matteo Corbetta può scrivergli direttamente alla mail

[email protected]

3393506327

oppure al Centro di Cesano Maderno dove collabora con la Dottoressa Claudia Gorla Psicoterapeuta

Centro Medico MEDIPLUS s.n.c.
Via Val Gardena 3

 

Benvenuti o bentrovati

Buongiorno e benvenuto  (nuovo contatto dei social), e a chi ha scoperto da poco il mio blog e buongiorno e  bentrovato a chi mi conosce già. Poiché ho diverse iniziative e attività sia in corso, sia da proporre, ho deciso di farne un riepilogo.

Inizio dalla mia attività di Editora-Editrice-Editore chiamatemi come volete, la casa editrice A.G.Editions ha sede in Francia ma pubblica in diverse lingue , francese, spagnolo ma soprattutto italiano in quanto il mio lavoro è soprattutto rivolto all’Italia.

A.G.Editions è una piccola realtà, alcuni la definiscono di nicchia, non credo che sia un difetto ma nemmeno una grande virtù, una casa editrice vive e/o sopravvive se vende libri è questo il nostro scopo, quindi da una parte essere di nicchia ci dà una connotazione particolare, dall’altra a volte penalizza.

Noi cerchiamo di dare voce a chi ce l’ha ma non riesce a farla sentire : con i libri sul Mutismo Selettivo per esempio ma non solo.

Cerchiamo di affrontare argomenti come la genitorialità e le problematiche di coppia attraverso libri divulgativi.

A volte ci avete inviato delle sinossi, ad alcuni abbiamo risposto ad altri no e mi scuso, anche se visto il tempo che è trascorso è chiaro che non abbiamo potuto prendere in considerazione le vostre proposte, quando gli argomenti sono specifici e hanno un target preciso il team di lettori che ci aiuta a valutare un testo, non ha sempre tempi velocissimi.

Quando dico che cerchiamo di dare voce a chi non riesce a farla sentire vuol dire che la nostra linea editoriale sta spostando il suo timone sempre più in questa direzione. Se avete argomenti da proporci non esitate a contattarci alla nostra mail:

ci interessa la Psicologia divulgativa;
ci interessano le novità sulla Didattica;
ci interessano approcci nuovi e alternativi su come “la scuola” come insegnanti e come studenti;
ci interessano i disagi infantili e adolescenziali;
ci interessano i disturbi, l’ansia, il bullismo.
Se avete un libro nel cassetto, se volevate scriverlo da tempo e non avete mai avuto il tempo (=coraggio?) per farlo forse è il momento per inviarci il vostro “manoscritto” (file in word o in pdf 😀scriveteci a questa mail
[email protected]

 

 

Adriana Cigni

Editrice

Organizzatice di seminari e formazioni

Creatrice e coordinatrice del progetto “Mi prendo cura di…”

Collaboratrice e cordinatrice del progetto Formazioni  sul Mutismo Selettivo dello Studio S.M.A.I.L.

 

ll morso. Ne parliamo con la Dottoressa Marelli

IL MORSO

 Dottoressa Marelli ogni anno, in molti asili, si consuma sempre lo stesso “dramma”, mi riferisco al dramma del morso! Sono tanti i genitori disperati perché i loro bambini tornano a casa con segni evidenti dovuti a morsi di altri bambini. Questo tema è spesso fonte di preoccupazione sia per i genitori dei morsicati che dei morsicatori, , ammetto di essere stata io stessa anni fa uno di questi genitori, in classe di mio figlio c’era un bambino che invece del segno di zorro, lasciava “ l’impronta dentaria” sulle braccine di molti suoi compagni. Perché un bambino sente l’esigenza di mordere?

Per poter capire meglio il fenomeno è necessario tuttavia però fare delle premesse. La questione più importante è relativa all’età. Sebbene, nel primo anno di vita,  il morso sia una modalità fisiologica di entrare in relazione con il mondo, non tutti i bambini mordono, quelli che lo fanno possono cambiare l’intensità e la frequenza dei morsi.

Il morso consente al bambino di esplorare l’ambiente circostante, di valutare la consistenza dei materiali, il sapore degli oggetti, e gli permette di fare esperienza diretta delle cose che lo circondano.

La bocca è un organo di senso fondamentale, ed è anche attraverso essa che si fa esperienza del mondo, specialmente nei primi mesi di vita.

Sarà accortezza dei genitori favorire questo processo, evitando di mettere intorno al bambino oggetti pericolosi o facili da ingerire. Per il resto via libera all’esplorazione!!

Per i bambini poter fare esperienza di ciò che li circonda, attraverso la bocca, è un passaggio non solo importante ma fondamentale. Questo principio vale sia per gli oggetti  sia per quelli animali domestici per esempio e si estende anche ai pari e, a volte, anche agli adulti che stanno intorno al bambino.

È un processo che serve sia per conoscere l’altro sia per osservare l’effetto che fa il proprio morso, l’azione che ha sugli altri. Solitamente è una fase passeggera che fa parte dell’evoluzione stessa del bambino sotto l’anno di vita.

Ma se continua? Se il bambino continua a mordere appunto come abbiamo detto nell’incipit anche quando fa il suo ingresso nella  scuola materna?

Dopo il primo anno di vita  il morso ha un significato diverso?

Successivamente il morso può avere diverse funzioni, ad esempio può essere un monito, un avvertimento che il bambino può utilizzare come modalità comunicativa.

A due anni il bambino può utilizzare la modalità del morso per esprimere appunto la propria rabbia o per “attaccare” gli altri.

Occorre ricordare due cose:

  • L’emisfero sinistro del nostro cervello (quello deputato al linguaggio verbale, al ragionamento ed alla logica) raggiunge la sua maturazione verso i tre, quattro anni. Ciò vuole dire che i bambini piccoli non sono in grado di comunicare il loro disagio utilizzando le parole. Ecco perché ricorrono ad altri metodi, tra cui il morso.
  • Noi adulti abbiamo la funzione fondamentale di mediatori. Dato che né l’emisfero sinistro né tantomeno la COF (corteccia orbito frontale, deputata alla regolazione emotiva), sono totalmente funzionanti e sviluppate, siamo noi adulti che fungiamo da rispecchiamento. Pertanto sarà di fondamentale importanza il modo in cui noi gestiamo i nostri conflitti e come riusciamo a regolare i loro.

Il morso rappresenta per il bambino quindi anche una modalità di entrare in relazione con il mondo, ma che consigli può dare ai genitori e agli insegnanti? In pratica cosa si può fare? I bambini che mordono a volte sono isolati, esclusi come evitarlo? E come fare in modo che il bambino cambi la sua modalità di “comunicazione” ?

Prima di passare ai consigli pratici bisogna affrontare una questione importante: quella del giudizio dell’adulto.

Vorrei che fosse ben chiaro che NON CI SONO BAMBINI CATTIVI e BAMBINI BUONI. Chi morde non è il carnefice e, viceversa, chi viene morso, non è la vittima. Spesso si tende a consolare il bambino che ha subito un morso e a non curarsi del bambino che ha dato il morso. Questo è errato ed andrebbe evitato. Entrambi i bambini, dopo l’atto, hanno bisogno di essere aiutati a regolare l’accaduto. Hanno bisogno appunto che l’adulto funga da mediatore dei loro vissuti emozionali, senza sentirsi in colpa, o senza sentirsi giudicati. Spesso accade che gli stessi bambini, se l’adulto non interviene immediatamente, sono in grado di regolarsi e di ripristinare il rapporto con il loro pari.

Proprio perché è fondamentale per la crescita e la maturazione celebrale del bambino (0-3 anni), il modo in cui noi adulti interveniamo, ecco cosa VA EVITATO assolutamente.

  • punire il bambino che ha morso. Primo perché, come detto sopra, essendo la corteccia orbito frontale e l’emisfero sinistro ancora immaturi, i bambini non comprenderebbero assolutamente la ragione. Sarebbero sopraffatti dalla reazione dell’adulto senza comprenderne le ragioni;
  • mordere il bambino a nostra volta. Inutile dire che questo creerebbe ancora più confusione nel bambino e non servirebbe a niente, anzi peggiorerebbe la situazione. Le azioni dei genitori sono un esempio di comportamento per i bambini, se mamma e papà mordono anche loro allora …mordere si può;
  • mettere in castigo il bambino. Per lo stesso discorso di sviluppo delle funzioni cerebrali il castigo nella primissima infanzia (0-3 anni) è INUTILE.

Cosa allora fare? Come intervenire senza interferire con il normale sviluppo del bambino?

  • Se si assiste ad un morso, questo vale sia a casa, al nido, al parco, lo si deve interrompere con un netto NO.

  • Se il morso è rivolto a noi durante l’allattamento o durante il gioco, la nostra reazione non deve essere né di svalutazione o di derisione e né aggressiva. Se il bambino ci morde gli si comunica che “No”, non si fa, perché fa male e noi non intendiamo subire e ci si allontana qualche minuto, sia per calmarci se siamo arrabbiati sia per permettere a lui di cominciare a registrare che le azioni violente non sono gradite. Così facendo anche lui imparerà che ci si può difendere dalla violenza e che non deve necessariamente subirla.
  • Intervenire con fermezza senza però aggredire il bambino a nostra volta. Si può dire semplicemente “no, non si fa”. Molti genitori restano un po’ contrariati rispetto a quest’ultimo consiglio. Poiché dicono “io ho fatto così, ma X lo ha fatto di nuovo!” ciò che noi genitori dovremmo sempre tenere a mente è che il processo di crescita e di apprendimento è lungo. A noi spetta il compito di seminare. Non è detto che raccoglieremo i frutti il giorno dopo la semina, ma se abbiamo agito rispettando la natura del bambino, rispettandolo come individuo e indirizzandolo verso la propria AUTOREGOLAZIONE EMOTIVA, avremmo senz’altro cresciuto un adulto sano ed empatico.
  • Affrontare la cosa senza ansia e senza apprensione. NON è grave mordere o essere morsi. Cerchiamo al limite di comprendere come mai il morso ci attiva così tanto e se ha a che fare con qualcosa che riguarda noi, la nostra infanzia, più che nostro figlio.
  • Se il bambino è piccolo occorre fornirgli qualche gioco da mordere. Ne esistono moltissimi, di diverse forme e colori (ad esempio Sophie la giraffa).
  • Tradurre sempre al bambino (superato l’anno di età), con le parole, ciò che pensiamo volesse esprimere con il morso (sei arrabbiato? Volevi giocare con X? Ti sei fatto male?).

 E se continua? Il bambino di cui parlavo all’inizio, compagno di scuola di mio figlio, purtroppo si fece una vera propria nomina di morditore selvaggio, non ha smesso neanche alle elmentari.

Dopo i due/tre anni il discorso cambia. Superata la fase in cui il morso è esplorativo, conoscitivo e comunicativo,  se il bambino continua a mordere anche senza un apparente motivo, allora vale la pensa di interrogarsi e di fermarsi a riflettere. Il morso a quell’età può essere un campanello di allarme che indica un disagio. Se la modalità del morso continua ci si  dovrebbe rivolgere ad uno psicologo esperto di età evolutiva che aiuti i genitori  ma soprattutto il bambino. Spesso si sottovaluta il fatto che i bambini che mordono, specie, dai 2 anni in su, hanno anche loro un disagio o un malessere ma non hanno ancora gli strumenti per gestirlo in maniera differente, hanno solo bisogno di essere compresi e aiutati.

Dottoressa Alessandra Marelli

Studio a Senago

VIA SARAGAT, 11 – 20030 – SENAGO 20030 – SENAGO (MI)

333/2328688(DAL LUNEDÌ AL VENERDÌ)

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333/2328688 (DALLE 09:00 ALLE 19:00

Studio a Bollate

Presso il Centro Pediatrico Itaca

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20030 – BOLLATE (MI)

 

Piccoli esploratori crescono. I bisogni emotivi fondamentali dei bambini. Ne parliamo con la Dottoressa Trivelli

Piccoli esploratori crescono

 Uno dei bisogni emotivi fondamentali dei bambini è la sicurezza, Dottoressa Trivelli cosa fa sentire sicuro “un bambino”?

Per sicurezza il bambino intende la presenza costante di un genitore o comunque di un adulto che funga da base sicura dal quale partire per andare nel mondo ed esplorarlo. Una base calda e accogliente nella quale poter tornare e fare il pieno d’amore e di sicurezza, il “carburante” per poter partire per nuove esplorazioni.

L’esigenza di questa presenza è evidente già nei primi 12/ 24 mesi dopo la nascita, un momento delicatissimo in cui il bambino costruisce dei veri e propri modelli su di sé, sul mondo e sugli altri, in questo periodo mette le basi delle relazioni e della percezione di sé stesso attuale e futura, e perdura poi per tutta la vita.

I bambini sono naturalmente curiosi e inclini a scoprire il mondo e sé stessi e imparano a mettersi in relazione col mondo che li circonda. Basti pensare ad un bambino che impara a gattonare, a camminare, a mangiare da solo, che esplora una stanza o un parco per vedere che giochi scegliere o che, con un adulto, si diverte con il gioco del cucù.

 

Consiglio ai genitori di sostenere e incoraggiare la naturale inclinazione all’esplorazione, fungendo da base sicura e veicolando un senso di presenza e disponibilità, di condivisione dell’esperienza, di curiosità e di fiducia nelle possibilità e nelle risorse del bambino.

I vantaggi? Aumento dell’autostima e del senso di autoefficacia, maggiore autonomia.

Dottoressa quello che sostiene è profondamente vero solo se il bambino ha fiducia in sé stesso può affrontare il mondo, il suo mondo e i suoi pari facendo ricorso alle sue risorse. Però non tutti i genitori sono uguali, alcuni per diversi motivi, per storie personali non riescono a reprimere la loro ansia, il senso di preoccupazione, la tendenza ad “evitare” al proprio figlio ogni possibilità di rischio. Molti vorrebbero fortemente essere più “leggeri” ma non ci riescono. Credo che ci rivolgiamo anche a loro.

In effetti se si impedisce al bambino di esplorare, se ci si sostituisce continuamente nelle azioni apparentemente difficili, si dà al bambino il messaggio “tu non sei capace”, oppure “questo è troppo pericoloso per te, tu non hai la forza, il coraggio, di farlo”, minando così l’autostima, la fiducia in sé stesso e nel mondo circostante.

Oggi sappiamo che percepire una situazione come altamente pericolosa e sentire di non avere le risorse interne ed esterne sufficienti per poterla affrontare, è un meccanismo che aumenta notevolmente il senso di insicurezza e i livelli d’ansia nel bambino.

Tutto questo riguarda quindi ciò che prova il bambino quando si trova ad affrontare una situazione, quindi parliamo di emozioni?

Esatto! Parliamo anche di emozioni, come veicoli di informazioni sul mondo e su di sé in relazione al mondo. I bambini hanno bisogno di poter comprendere e dare un senso alle loro emozioni che costituiscono un elemento fondamentale per il loro sviluppo.

L’esperienza emotiva accompagna l’individuo in tutto il ciclo di vita, alcune emozioni possono essere talmente intense da spaventare anche un adulto, per la veemenza con la quale emergono, possiamo immaginare l’impatto che hanno sui bambini.

Le emozioni possono essere destabilizzanti, per questo è necessario che il bambino senta e abbia la possibilità di poterle esprimere tutte ai genitori e agli adulti che si prendono cura di loro. Ma non basta. Le emozioni e le loro manifestazioni devono essere ascoltate, accolte, nominate per nome e regolate dagli adulti. Ci possono essere vari modi per farlo anche giocando, ma bisogna insegnare ai bambini ad esprimere, riconoscere, nominare le emozioni, in tal modo si evita che ne siano sopraffatti.

Imparando a comprendere che quello che sentono si chiama:

paura, felicità, tristezza, noia, rabbia renderà meno pesante quell’emozione!

Dottoressa Trivelli, per concludere questo breve excursus sulle necessità fisiologiche dei bambini potremmo riassumere che per permettere una “serena crescita psicologica”, bisogna “lavorare” su tre bisogni fondamentali:

Il bisogno di sicurezza;

il bisogno di esplorazione;

il bisogno di regolazione dello stato emotivo

Tutte le immagini sono prese dal web

 

 

 

 

 Dottoressa Trivelli
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Estate. Compiti sì, compiti no.  Oltre la polemica parliamo di …noia con la Dottoressa De Ponte

Estate.

Compiti sì, compiti no. 

Oltre la polemica parliamo di …noia con la Dottoressa De Ponte

Con l’arrivo dell’estate i genitori devono affrontare due problematiche: l’organizzazione delle ferie, e il tempo libero dei figli col solito appuntamento con i compiti sì- compiti no.

Bisogna tener conto di diversi fattori:

non tutte le famiglie partono per le vacanze

non tutti gli insegnanti assegnano i compiti delle vacanze.

L’unica cosa sicura è che i bambini e i ragazzi possono finalmente disporre del proprio tempo, per tutti è il periodo in cui ci si sveglia tardi, non ci sono impegni quotidiani, né si vive l’ansia dei voti.

Ci potrebbero essere i compiti delle vacanze

Alcuni insegnanti li ritengono utili e importanti, altri pensano che in questo periodo il bambino debba solo ricaricarsi e abbia bisogno di un totale distacco da tutto ciò che riguarda la scuola. Io credo che certamente i compiti siano importanti per consolidare gli apprendimenti ed evitare che il bambino li dimentichi, ma l’estate deve essere il periodo giusto per vivere nuove esperienze, diverse da quelle scolastiche. È il periodo per recuperare tutte le relazioni, familiari e amicali, che durante l’inverno, a causa dei ritmi serrati, non hanno potuto “coltivare”  e sviluppare . La scuola e le attività extrascolastiche prendono molto del tempo del bambino, oggi ci stiamo rendendo conto che forse prendono anche troppo tempo. Le settimane dei bambini sono cadenzate da impegni come se fossero piccoli manager e manca il tempo per annoiarsi.

Il bambino ha diritto alla noia?

Mi è capitato varie volte di chiacchierare amabilmente con genitori (specialmente mamme!) ed essere lasciata da sola di punto in bianco perché: “scusa vado perché il bambino si annoia da solo”.  Il bambino non piangeva, non si lamentava …semplicemente non faceva nulla.

La noia non è mica una patologia!

Il bambino deve avere il tempo per annoiarsi, per rilassarsi per non avere scadenze, tempi da rispettare, deve imparare a vivere la noia e a superarla, se vuole.

Sì, l’ho verificato con mio figlio, da piccolo non si annoiava mai (figlio unico) inventava giochi incredibili con i pelouches, la sua cameretta diventava una classe (lui ovviamente il maestro), o un palcoscenico teatrale, inventava conversazioni e “pièces”, manifestava una fantasia incredibile ora è un adolescente è tutta un’altra storia…

La noia dà la possibilità di accedere ad aspetti di sé stessi sconosciuti, è uno spazio di tempo positivo ed è un potente stimolo alla creatività. La noia si può “vivere” anche insieme. È bello stare senza far niente con i genitori, con i cuginetti, con gli amici. È bello anche stare senza far niente con sé stessi, si scoprono giochi vecchi, se ne inventano dei nuovi, si mette in moto la fantasia.

Riscopriamo anche i passatempi più semplici che possano anche creare momenti di rilassamento fisico e mentale del bambino, a casa in balcone, o stesi sull’erba in un giardino, o al mare o in montagna guardiamo il cielo insieme a lui/lei, il colore, le nuvole, le forme delle nuvole, il movimento. Guardiamo le cose belle del mondo senza sorvolare, senza fretta.

Facciamoli scrivere. Quello che vogliono, sull’argomento che vogliono.

A volte i bambini sono riluttanti alla scrittura perché hanno paura di essere giudicati per la forma, la sintassi, l’ortografia, rassicuriamoli che la loro “opera” non sarà valutata, scrivere deve essere un piacere per esprimere sé stessi. Potremmo riproporre in versione rivisitata il Diario, quello sul quale alcuni di noi riversavano gioie e dolori, e i più grandi anche i drammi amorosi, oggi non è più di moda ma ai più piccoli si può proporre una sorta di cronistoria delle emozioni:

oggi sono felice perché…

oggi sono arrabbiato perché…

oggi ho giocato a….

La lettura

Si parla molto anche di questo, gli insegnanti propongono delle liste di libri da leggere.

Per me vale la regola che il bambino debba scegliere un libro in base ai suoi gusti, qualsiasi esso sia,  e uno dalla lista proposta dagli insegnanti. Un’idea che renderebbe la lettura più piacevole e coinvolgente sarebbe quella di leggere tutti il libro “della scuola”, tutti: mamma, papà, sorelle e fratelli se ce ne sono. Tutti.

Il libro diventerebbe così argomento di discussione collettiva, di critica, di spiegazioni.

Renderebbe tutto più leggero e divertente, fare le cose insieme spesso è sinonimo di fare le cose con amore.

Tutte le immagini sono prese dal web

 

 

La dottoressa Anellina De Ponte riceve a:

  • Via Nazionale delle Puglie 51

Cimitile (NA)

Tel. 3288493076

 

L’Arteterapia (in seguito AT): un modo per ritrovare la nostra manualità …e noi stessi. Corsi di Arteterapia per adulti, ne parliamo con il Dottor Matteo Corbetta

L’Arteterapia (in seguito AT): un modo per ritrovare la nostra manualità …e noi stessi. Corsi di Arteterapia per adulti, ne parliamo con il Dottor Matteo Corbetta

 


Dottor Corbetta in un precedente articolo

https://ilblogdiadri.altervista.org/2018/01/larteterapia-ovvero-disegno-non-peculiarita-dei-bambini-riappropriamoci-della-nostra-creativita/

 lei ci ha spiegato che l’arteterapia si può “praticare” a qualsiasi età, può parlarci della sua esperienza di AT con adulti? 

È vero non c’è alcun limite di età per iscriversi ad un corso di AT, lavoro frequentemente con bambini e ragazzi ma ho curato anche corsi per gruppi di adulti.

Quali sono le motivazioni che spingono un adulto a voler fare della AT?

In genere i corsi hanno due tipi di indirizzi proprio conseguentemente alle esigenze di chi si s’iscrive: il corso finalizzato al benessere, e il corso indirizzato a equipe di lavoro.

Per quanto riguarda il primo, sono persone animate dal desiderio di approfondire la “conoscenza di sé” tramite modalità di espressione non verbali. Nel mio caso tutto è partito dai genitori dei bambini con i quali lavoro nelle scuole, sono stati loro a dirmi “fai attività con i nostri bambini e non puoi farla anche con noi?”  e così grazie a loro ho iniziato i corsi serali per adulti.

Come si svolge un setting per gli adulti, cosa propone, cosa si fa in pratica?

Nel setting per gli adulti la modalità di lavoro è differente da quella che utilizzo in studio. In tutte le sedute i partecipanti hanno la possibilità di scegliere tra i materiali proposti per creare immagini, dopo aver ricevuto uno stimolo verbale.

Spesso prima della ricerca del materiale creo un momento di rilassamento, con una musica di sottofondo, durante il quale insegno ad ascoltare il respiro, e invito a fare spazio solo a quanto sta avvenendo nella stanza, affinché questi incontri siano efficaci è veramente necessario lasciare fuori lo stress e i problemi quotidiani. Dopo questo momento i partecipanti posso scegliere tra materiali convenzionali: matite, matite colorate, pennarelli, pastelli ad olio, gessetti, acquerelli, tempere, chine; ma anche materiali non convenzionali e di riciclo: pezzetti di stoffa, lana, bottoni, cannucce e tutto quello che trovano e stimola la loro fantasia. Una volta scelto il materiale la creazione dell’opera può scaturire dagli stimoli più svariati.

In alcuni gruppi ho proposto di creare un’immagine che li rappresentasse attraverso la scelta del materiale a disposizione “scegliete il materiale o i materiali che più vi rappresentano”, in altre situazioni siamo partiti dalla scelta di immagini predefinite o fotografie, in altre ancora da una stimolazione olfattiva con profumi ed alimenti. Sono molteplici le modalità con le quali si comincia, io credo che l’inizio debba essere soft e che molto dipenda anche dai partecipanti, se si conoscono o meno, se costituiscono subito un gruppo oppure hanno difficoltà o hanno bisogno di più tempo per lavorare insieme. Sono molto contento quando nel gruppo ci sono delle contaminazioni, anzi le ritengo fondamentali, perché circolano immagini ed energie che spesso sono condivise quasi in modo inconscio.

Dottor Corbetta in che modo lei “guida” il gruppo, perché in qualche modo anche lei deve intervenire immagino.

Sì, guido nel senso che sono il “conduttore!

Nel percorso mi inserisco con molta discrezione per apportare modifiche, spesso in modo non verbale o attraverso il linguaggio metaforico (utilizzo del materiale ecc.) o parole di supporto e accoglienza dei movimenti e dei gesti di un singolo, e poi lascio loro il tempo che occorre per diventare “gruppo”. Dopo un periodo di creazione dell’immagine si procede alla verbalizzazione

La verbalizzazione, processo successivo alla creazione dell’immagine. Può spiegarci meglio?

Nella mia esperienza, la verbalizzazione condivisa rende l’immagine ancora più viva e diventa patrimonio/storia ed espressione per l’intero gruppo. Si mescolano emozioni di gioia, di preoccupazione, a volte di sconforto fino a singhiozzii e pianti che diventano il modo di esternare ciò che la creazione dell’immagine nel processo creativo, ha portato alla superficie. Nel corso delle sedute, che solitamente non sono mai meno di 8/10 ,si sussegue lavoro individuali o di gruppo a seconda delle esigenze; si utilizzano materiali differenti si disegna, si crea e si sperimenta. Per il mio modus operandi sono solito lasciare la piena libertà, ricordo in alcuni casi di essere arrivato a procurare pezzi di legno, viti, chiodi, martello e trapano per un padre che voleva rappresentarsi utilizzando gli strumenti del proprio lavoro. Nei gruppi sono nate storie affascinanti che hanno permesso ai singoli di vedersi e rivedersi dandosi un tempo e uno spazio per il racconto dei propri vissuti e delle emozioni. Spesso mi è capitato di vedere adulti inizialmente rigidi ed impacciati lasciarsi andare e a fine percorso sentirmi dire da uomini con professioni molto “razionali”, che non si credevano capaci di “esprimere le proprie emozioni” in quel modo. Qualcuno mi ha detto di aver partecipato con qualche resistenza e di essersi poi trovato “incantato” da quello suscitava in lui tutta quella creatività..

Con il passare delle sedute a volte si propongono dei temi, io cerco di farlo senza mai imporli anche attraverso immagini che possano servire da stimolo, talvolta canzoni, brevi scene di film, racconti ecc. Altre volte lascio che siano i componenti del gruppo a creare e a proporre, ogni gruppo è diverso dall’altro, ogni percorso è specifico e dipende da numerosi fattori, io considero spesso il conduttore, cioè me stesso, come la persona capace “di sentire con la pancia ed usare la testa”.

Bellissima definizione!

Colgo lo stato del gruppo con la pancia, sono nel gruppo, lavoro nel gruppo poi però rientro nel mio ruolo e utilizzo la testa nella scelta del percorso da seguire.

Accade quindi che progetti iniziali e ipotesi di lavoro vengano spesso modificate rispetto all’idea di partenza, a volte si parte da un titolo o da una parola che poi sommata a quelle degli altri diventa una storia o un racconto collettivo. Credo che oggi ci sia una grande bisogno di parola, gli adulti hanno l’esigenza di comprendere quello che accade nella seduta, la verbalizzazione oltre ad essere la possibilità di espressione di ognuno diventa l’occasione per dare concretezza al percorso prima della chiusura della terapia di gruppo, o alla seduta di quel giorno.

In altri casi ho svolto laboratori di AT con professionisti in equipe di lavoro con l’obiettivo di far emergere, in un modo differente da quello indagato verbalmente, le dinamiche di gruppo nel team di lavoro. In questo caso il mio intervento ha promosso interazioni rimuovendo rigidità e pregiudizi presenti nella realtà lavorativa, nel setting si ammorbidivano o venivano alla luce.

Per quanto differenti le motivazioni per cui si inizia un percorso di AT, mi sembra che l’elemento comune sia il bisogno di far uscire le emozioni.

Sì, in entrambi i casi posso dire che si è poco abituati a lavorate sul sé, soprattutto nel mondo odierno dove diventa difficile ritagliarsi uno spazio per il proprio benessere interiore. Nel lavoro con gli adulti spesso sono venuti alla luce vissuti d’infanzia, ricordi di viaggi, di innamoramenti, di successi e fallimenti che hanno ricevuto una forma diversa e sono stati metabolizzati dopo aver lavorato con un linguaggio non verbale. In tal senso le immagini sono state determinanti, forti e coraggiose in quanto portatrici di significati nascosti.

Grazie Dottor Corbetta come sempre lei riesce  ad emozionarci e a trasmettere la sua passione per questo lavoro  in chi la legge, e in questo caso anche la curiosità e la voglia di intraprendere un percorso di AT. Abbiamo tutti bisogno di “fare” qualcosa che non sia giudicato, valutato, criticato, fare qualcosa che non sia necessariamente utile nel senso economico della parola, usare le mani … ne abbiamo perso l’abitudine, passiamo dalla mano  che tiene il cellulare  alle dita che si muovono sul pc. Deve essere emozionante ritrovare la propria manualità, con l’arteterapia si può. E anche ritrovare sé stessi.

Tutte le immagini sono di  © Matteo Corbetta

 

 

 

Se qualcuno dei nostri lettori (genitori, ragazzi, adulti) volesse contattare il Dottor Matteo Corbetta può scrivergli direttamente alla mail

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Un bambino vive un momento di difficoltà, il genitore chiede aiuto… cosa avviene da quel momento in poi? Ne parliamo con la Dottoressa De Ponte

Dottoressa De Ponte nel corso dell’intervista che potremmo definire di presentazione  (la trovate qui nel blog), lei ha affermato che si occupa anche di Psicoterapia dell’età evolutiva e quindi di sostegno psicologico per i bambini. Cosa succede quando un genitore si accorge che il proprio bambino sta vivendo un momento di difficoltà, di disagio?

Iniziamo da: lei riceve una telefonata da un genitore 

Esatto, tutto inizia con una telefonata durante la quale uno dei genitori mi spiega la situazione, poi si fissa  il primo appuntamento.

In genere richiedo la presenza di entrambi i genitori (a meno che non ci siano degli impedimenti), poi in seguito decido se vedere o meno il bambino anche in rapporto alla sua età. Il percorso terapeutico prevede degli incontri alternati   bambino-genitori, di solito dopo tre incontri col bambino uno avviene con i genitori, ma non c’è mai nulla di fisso, tutto è dinamico e dipende dal percorso, dalla disponibilità dei genitori e dalla problematica.  La seduta dura circa   50 minuti con una frequenza che varia caso per caso.

So che non è facile decidere di “di andare dallo psicologo”, in virtù della sua esperienza cosa spinge un genitore a chiedere finalmente aiuto?

Il bambino viene in terapia dopo un fatto eclatante, in seguito ad episodio molto forte, come lei ha detto nella premessa, i genitori non sempre si attivano in tempi veloci per verificarne la causa.  Fra i motivi da lei enunciati aggiungerei che spesso si pensa che portare il bambino dallo psicologo sia automaticamente indice di una “carenza” come genitore. Una sorta di: se il bambino ha qualcosa che non va è sicuramente “colpa” mia, sono un cattivo padre o una cattiva madre.  Da qui nasce la resistenza del genitore a chiedere aiuto. Generalmente in questi casi, rimando ai genitori un messaggio di incoraggiamento, so bene che fanno del loro meglio, e sicuramente il loro bambino è amato e  le difficoltà che sta vivendo sono  probabilmente momentanee.

Quindi a volte le arrivano bambini con situazioni anche gravi perché immagino che il fattore “tempo” sia importantissimo, forse possiamo approfittarne per lanciare una specie di appello: procrastinare, rimandare non aiuta a far superare i problemi, al contrario aggrava le situazioni e rischia di cronicizzarle. C’è anche la possibilità che sia un disagio passeggero, un momento di difficoltà ma anche che sia un problema più complesso che va considerato seriamente.

Lo so che è una domanda “impossibile” ma molti mi chiedono “quanto dura il percorso terapeutico?”, immagino che sia impossibile rispondere.

Infatti non è definibile a priori, ogni bambino è una caso a sé, ha una sua storia e volta per volta insieme anche ai genitori valutiamo la situazione e gli obiettivi terapeutici.

Ora entriamo nel suo studio, come interagisce col bambino?

Lo strumento principale d’intervento è il Colloquio in base anche al mio orientamento terapeutico, ma soprattutto il gioco! Non potrebbe essere altrimenti trattandosi di bambini. Il percorso terapeutico è finalizzato al conseguimento della realizzazione di sé stessi e delle proprie capacità e potenzialità, all’aumento della conoscenza di sé, all’accettazione dei propri limiti, sia da parte del bambino che da parte dei genitori, e alla riduzione della sofferenza psicologica.

Quindi per costruire la relazione con il bambino utilizzo i giochi di ruolo, le fantasie guidate, le storie, la musica, l’argilla, il disegno, la lettura, i peluche, i burattini, il colore.

Nella mia vita privata faccio anche teatro e quindi porto nello studio questa esperienza lavorando sulla drammatizzazione delle fiabe, le metto in scena insieme ai bambini; è una pratica che li aiuta tantissimo ad aumentare la crescita e lo sviluppo della coscienza[1].

Ma la tecnica e la procedura non sono fine a sé stesse, la tecnica e il metodo sono catalizzatori perché ogni seduta è imprevedibile tutto dipende da me, dal bambino, dalla situazione; il processo creativo che ne deriva è aperto a 360 gradi, perché è questo il mio compito: aprire sia le porte che le finestre del loro mondo interiore.  È necessario offrire al bambino tutti i mezzi che gli permettano di poter esprimere le proprie emozioni e di tirar fuori ciò che è nascosto e che spesso fa soffrire. Si può lavorare insieme su questo materiale che emerge. Il mio intervento permette di aiutare ad aprire le porte della autoconoscenza e della padronanza di sé, con dolcezza e delicatezza.

Quando entro in relazione con un bambino attivo il mio bambino interiore, detto in termini di Analisi Transazionale, cioè attivo una parte di me, di Bambino Libero che va verso la creatività, verso la spontaneità tipica dei bambini e poi attivo anche una parte Genitoriale.

Concluderei con un pensiero fondamentale: il presupposto di base per lavorare con i bambini è non solo attivare questa parte libera di sé (il Bambino Libero di cui dicevo), ma è fondamentale AMARLI, stabilire con loro un rapporto di accettazione e di fiducia, seguirli nella crescita e nel loro apprendimento. Il bambino deve sentirsi accettato per quello che è, solo amandolo e accettandolo è possibile aiutarlo. L’amore cura.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Come metodo mi ispiro a quella di Viole Oaklander una terapeuta Gestalt che ha scritto” Il gioco che guarisce”

La dottoressa Anellina De Ponte riceve a:

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Il viaggio

 Il Viaggio

Paola Cipriano

Se oggi potessi esaudire un desiderio sarei lì in alto. Perché l’andare pone fine all’inquietudine.
Non le radici, ma le gambe. I piedi, la possibilità di muoversi.
E al varco dei nuovi luoghi, dei paesi che prima erano lontani, far pace con l’estraneità di ciò che non sei più.
Per stare in equilibrio ho bisogno di questo allenamento costante.
Come disse qualcuno, viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere stranieri fra stranieri. Che forse è l’unico modo di essere veramente fratelli.
Io viaggio per viaggiare, viaggio per ritrovare -ogni volta- il senso di appartenenza a questo tutto. L’ incastro perfetto.
Viaggio per la beatitudine che mi regala l’incontro con l’altrove.

 

Intervista alla Dottoressa Anellina De Ponte Psicologa Clinica e Psicoterapeuta ad orientamento Gestaltico e Analitico Transazionale.

Una nuova intervista e una nuova collaborazione.

Grazie a queste conversazioni, e i relativi articoli che ne derivano abbiamo la possibilità di informarci sui vari approcci terapeutici, credo che conoscere un po’ più da vicino le persone alle affidiamo il nostro essere profondo sia anche rassicurante e  utile.

Questa volta ho posto qualche domanda alla Dottoressa Anellina De Ponte Psicologa Clinica e Psicoterapeuta ad orientamento Gestaltico e Analitico Transazionale.

Dottoressa De Ponte cosa vuol dire “orientamento Gestaltico e Analitico professionale” 

Fu uno psicanalista tedesco, Fritz Perls, a dare il nome di Gestalt a questo nuovo orientamento psicoterapeutico, la parola deriva dal verbo tedesco gestalten = “dare forma, dare una struttura significativa”.

La Terapia della Gestalt è un approccio umanistico alla psicoterapia che si accosta in maniera olistica all’esperienza umana stimolando nell’individuo la responsabilità e la consapevolezza dei bisogni psichici e fisici attuali, del qui ed ora.

La Psicoterapia della Gestalt  è un approccio terapeutico centrato sulla presenza, sulla possibilità cioè di rendere consapevole il fluire dell’esperienza, il nostro essere-nel-mondo, non è solo un approccio rivolto  alla cura del malessere psicologico. I principi sui quali si fonda  hanno un valore che non decadono con il cambiare del tempo.

L’incontro in psicoterapia della Gestalt è la base della cura. La   relazione di cura è strutturata su due polarità, da una parte l’osservatore (il terapeuta) dall’altro l’osservato (il paziente), il primo esercita il suo potere di  cura attraverso la sua conoscenza, il secondo si affida.

Dottoressa ci spieghi qual è la particolarità del terapeuta gestaltico.

Il terapeuta gestaltico:

  • guida il paziente affinché lui stesso si riappropri dei propri potenziali.
  •  dà sostegno alla responsabilità individuale e alla consapevolezza, fattori fondamentali di cambiamento e di crescita
  • mette sullo sfondo le sue conoscenze teoriche ed in figura la relazione con l’altro. Porta sé nella relazione, il suo modo di stare al mondo, entra pienamente nella relazione con il paziente con il proprio vissuto.
  • si pone come persona reale, invitando il paziente a fare lo stesso, creando l’attitudine dello stare nella relazione per quello che si è.
  • guida il paziente affinché lui stesso si riappropri dei propri potenziali.
  • mette sullo sfondo le sue conoscenze teoriche ed in figura la relazione con l’altro. Porta sé nella relazione, il suo modo di stare al mondo, entra pienamente nella relazione con il paziente con il proprio vissuto.

Potrebbe definirci, sempre brevemente, l’Analisi Transazionale (in seguito AT)?

L’Analisi Transazionale è una teoria della personalità e una psicoterapia sistematica finalizzata alla crescita e al cambiamento della persona. L’AT  trae origine da Eric Berne (1910-1970) uno psichiatra americano, è  in primo luogo una filosofia, una concezione dell’uomo che si inscrive all’interno della vasta corrente della psicologia umanistica. Gli assunti filosofici riguardo all’uomo, alla vita e agli obiettivi del cambiamento tipiche dell’A.T. sono:  “Io sono OK”, “Tu sei OK”.

“Ogni persona ha valore, importanza e dignità e la capacità di pensare e scegliere”, ognuno decide il proprio destino e queste decisioni possono cambiare nel corso del tempo”. L’opera di Berne era orientata verso un solo obiettivo « guarire il paziente il più velocemente possibile”, e per riuscirci costruì una teoria dalle parole molto semplice per facilitare la relazione terapeuta -paziente e permettere a quest’ultimo di gestire lo strumento terapeutico e di essere quindi parte attiva della sua guarigione.

L’ AT  mette in rilievo una griglia di lettura delle nostre « transazioni »,cioè dei nostri scambi con il mondo circostante e permette di migliorare le nostre relazioni con un lavoro che si basa essenzialmente sulla parola e sulle emozioni.

L’approccio da me utilizzato è frutto di un modello della scuola di specializzazione in psicoterapia della Gestalt  e  dell’AT, IGAT, che integra i due approcci che abbiamo brevemente spiegato, detto “Modello Gates” che comprende anche la psicologia degli Enneagrammi e la  spiritualità. Queste diverse esperienze terapeutiche, che  si intersecano e  arricchiscono reciprocamente, permettono di intervenire con varie tecniche sulle svariate problematiche o patologie. Infatti  l’integrazione di Gestalt e Analisi Transazionale permette uno spettro ampio d’intervento e dà la possibilità di agire efficacemente su due livelli cioè sul processo e sul contenuto, sul “qui e ora” con particolare  attenzione al comportamento visibile, osservabile che c’è in quel momento nel paziente e sul suo passato. 

Dottoressa non le faccio ulteriori domande su questi orientamenti terapeutici perché sono convinta che nel corso delle nostre future interviste ci torneremo spesso. Ma vorrei fare a lei la domanda che ho posto a molte sue colleghe e che secondo me interessa molto i lettori e probabilmente anche gli studenti che stanno pensando di intraprendere il lungo percorso di studi che li porterà a diventare psicoterapeuti.

Mi dica perché ha scelto di fare questo lavoro, cosa l’ha spinta ad un momento della sua vita a scegliere questa precisa direzione?

Ho scelto di fare questa professione e la esercito con molta passione e cura  perché credo che il vissuto di ogni essere umano meriti grande cura e profonda attenzione, il paziente  è una persona in grado di svilupparsi e di crescere  e di essere sano.

Se ci penso credo che la passione per questo lavoro sia nata molto presto, prima ancora di conoscere il significato della parola “psicologia” e di sapere la differenza tra psicologia e psicoterapia. Durante la mia infanzia  e la mia adolescenza ho vissuto esperienze emotivamente forti e spaventose che mi hanno resa molto fragile, non riuscivo a comprendere il mio stato d’animo, le mie reazioni a questi eventi, mi ponevo tante domande, ma ero piccola la mia mente ancora non aveva la capacità di dare le risposte.

Questa è l’immagine e il ricordo che ho di me:  una bambina con una attiva vita interiore che si poneva mille domande, tanti quesiti, solo verso i 15 anni, quando ho cominciato a strutturare un pensiero cognitivo  un po’ più concreto, ho capito che la psicologia e la psicoterapia potevano aiutarmi a dare una risposta alle mie domande. Sentivo che volevo costruire un puzzle, il puzzle della mia vita, ma non ci riuscivo perché mi mancavano i pezzi e anche gli strumenti per metterli insieme.

Tornando a me bambina, ricordo che  mi piaceva stare tra la gente, mi piacevano le persone sensibili, ed ero attratta dalle persone che “sentivano” le  emozioni come me, mi piaceva ascoltare. Chissà forse l’attitudine c’era già!

Posso quindi dire che ho avuto una duplice motivazione a intraprendere questa strada: il voler “guarire” le ferite interne della bambina che sono stata, il voler guardare il mio mondo interno, e l’altra motivazione il voler “guarire”  quelle  degli altri  dei miei pazienti spinta dal  desiderio di guardare (con molto rispetto) il mondo  interno dell’altro e anche con molta fiducia. La fiducia è un concetto fondamentale del mio modello, fiducia nella guarigione, perché se ci sono riuscita io a superare i mie problemi, a sanare “le mie ferite” ci può riuscire anche il mio paziente. Oggi posso dire con certezza  che il grande lavoro che faccio anche su di me con la psicoterapia, e quello che faccio con i miei pazienti, mi aiuta a mettere insieme i vari pezzi di quel famoso puzzle di cui parlavamo prima: il puzzle della mia vita.

Per concludere la risposta alla sua domanda le racconto questo aneddoto: qualche anno fa ho incontrato  un’amica del liceo che non vedevo da tanti anni perché viveva all’estero, durante una rimpatriata venendo a conoscenza del mio lavoro, mi disse “Anellina ma tu sei sempre stata una psicoterapeuta”.Questa frase mi ha colpito tantissimo perché  non ero consapevole della percezione che gli altri avevano di me dai primi anni del liceo, cioè quella che “prestava soccorso, ascoltava gli altri, era comprensiva” come mi ha detto lei stessa.. Evidentemente dentro di me, chissà da quando, nella parte più profonda avevo già deciso cosa avrei fatto “da grande”.

Dottoressa credo che lei abbia perfettamente descritto quella che potremmo definire quasi una vocazione per il suo lavoro, rimasta latente per qualche tempo ma che poi è riuscita ad emergere ben presto.

Oggi lei lavora in tantissimi ambiti che svilupperemo nei prossimi articoli viaggeremo attraverso la sua esperienza entrando nel dettaglio della sua esperienza.

Lei lavora sia con i bambini che con gli adulti vero?

Sì certo mi occupo di psicoterapia dell’età evolutiva ,di disturbi d’ansia, panico, depressione, di mutismo selettivo, conduco gruppi di sostegno alla genitorialità, gruppi di crescita personale, gruppi di rilassamento (training autogeno, meditazione, fantasie guidate ecc.).

Ho sempre lavorato con i bambini, mi è sempre piaciuto moltissimo come animatrice, come educatrice e responsabile di Comunità di minori e oggi come Psicoterapeuta poter aiutarli fin da piccoli e a trovare il loro benessere interiore, soprattutto quando sono bambini con storie familiari molto pesanti, come ne ho incontrati nelle Comunità.

Altro ambito a cui tengo tantissimo è la mia collaborazione con la Scuola di Specializzazione IGAT,  mi occupo di  supervisione, tutoraggio, assistenza alla didattica  agli allievi che si stanno specializzando e collaboro alla ricerca in ambito clinico. Ho presentato dei lavori miei in Convegni Nazionali.

Per concludere Dottoressa De Ponte come definirebbe lo Studio in cui riceve i suoi pazienti?

Il mio studio è uno spazio ed un tempo per poter riscoprire le risorse e le potenzialità dell’individuo e anche per entrare in contatto con le proprie criticità al fine di poter elaborare con consapevolezza e consapevolmente all’interno di una relazione d’aiuto (terapeuta-paziente), che è una relazione autentica volta alla valorizzazione della dignità e la centralità della persona, perché la persona è autrice del proprio cambiamento. Io, come psicoterapeuta non do consigli, ma stimolo e faccio riflettere il paziente affinché possa trovare delle soluzioni nuove a dei vecchi problemi e affichè possa scoprire chi realmente è.

Grazie Dottoressa a presto allora per i prossimi articoli

 

 

 

La dottoressa Anellina De Ponte riceve a:

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Anticipare l’ingresso alla scuola materna e alla scuola elementare intervista alla Dottoressa Alessandra Marelli, Psicoterapeuta.

Anticipare l’ingresso alla scuola materna e alla scuola elementare intervista alla Dottoressa Alessandra Marelli, Psicoterapeuta.

Prima di scrivere questo articolo sono andata un po’ in “giro” su internet per vedere cosa succede negli altri paesi, per esempio nel paese europeo che viene preso sempre come massimo esempio di sistema scolastico all’avanguardia, la Finlandia.

scuola finlandese

I bambini  finlandesi iniziano la scuola elementare a 7 anni. Dai 5 ai 6 anni frequentano una sorta di pre-scuola. Pare anche che dopo ogni ora di lezione abbiano 15 minuti di pausa…

E ora passiamo a noi.

Dottoressa Marelli un tempo andare a scuola a 5 anni era una vera eccezione, quelli che lo facevano venivano quasi considerati speciali, geni, dotati di intelligenza superiore alla media, oggi anticipare l’ingresso alla scuola materna e /o alla scuola elementare sta diventando un fenomeno sempre più diffuso, lei sa spiegarne le ragioni?

Fino a qualche tempo fa si anticipava l’entrata alla scuola materna per motivi economici, i nidi erano rari e molto costosi, e quindi si anticipava più che altro per risparmiare le onerose spese della retta mensile, oggi però non è più così, la situazione è cambiata ed entrano in gioco altri fattori. I nidi sono numerosi, in alcune Regioni o Comuni si possono anche richiedere sovvenzioni per pagare le rette, c’è più possibilità di scelta anche a livello economico, quindi il “risparmio “non è più la causa principale di questo incremento.

Eppure, è un fenomeno sempre più diffuso. Perché?

È un’esigenza dei genitori, c’è un desiderio di anticipare i tempi scolastici per far “guadagnare un anno” (lo dicono in molti) al figlio.  In pratica si richiede non per ragioni relative  al momento attuale della vita del bambino, ma in prospettiva di un vantaggio futuro, se vantaggio si può considerare.

Poniamoci queste domande: che vuol dire fargli guadagnare un anno? Rispetto a cosa? Rispetto a chi? Ai suoi coetanei? Alla società?

Si ha davanti un bambino di 2-3 anni e si è già proiettati nel suo futuro di adulto: che terminerà prima le elementari e quindi le scuole superiori e quindi la laurea e quindi…

Io credo sinceramente alla buona fede dei genitori, credo che considerino questo anticipo una sorta di regalo ai figli, ma in realtà sembra quasi una sorta di gara.

Dottoressa ci sta dicendo che carichiamo i bambini già di mille aspettative fin da piccoli? Però io credo che anche i genitori si sentano un po’ confusi, magari pensano “ora tutti anticipano l’ingresso alla scuola materna e alle elementari e lo faccio anch’io altrimenti mio figlio sarà l’unico a non saper leggere e scrivere e rimarrà indietro, si sentirà diverso, o addirittura emarginato.”

Comprendo la difficoltà e il bisogno di uniformarsi ma forse dovremmo trovare la forza di pensare solo ai bambini nei limiti delle pressioni che la società ci impone, che noi adulti gli imponiamo, perché conduciamo vite frenetiche, abbiamo fretta che diventino autonomi molto presto per poter facilitare la loro e la nostra vita quotidiana, ma ogni tanto dobbiamo fermarci e pensare come poter conciliare tutto questo, facendo anche qualche sforzo in più per poter andare incontro alle esigenze del bambino.

È vero ci sono bambini che fin dalla materna imparano a leggere e a scrivere, è vero anche che ci sono bambini che sanno già adattarsi precocemente a restare seduti delle ore, ma… ci sono moltissimi bambini di 5 anni per i quali restare seduti 6 ore, ascoltare, restare in silenzio, concentrarsi comporta uno sforzo enorme perché il loro sviluppo fisiologico e cognitivo non è ancora pronto a questo. Ci sono teorie dell’apprendimento che dimostrano e spiegano che alcune aree cerebrali si sviluppano in determinate età.

Dottoressa qualcuno potrebbe obiettare che è pur vero che quelle stesse aree si sviluppano anche in conseguenza di stimoli esterni.

Certo anche questo è vero! Ma non tutti sono recettivi allo stesso modo.

Se mio figlio sa leggere e scrivere a 5 anni posso provare a dargli degli stimoli in più, ma sotto forma di gioco, senza sovraccaricare il sistema, altrimenti questa intelligenza e questa capacità di apprendere si può trasformare in avversione. Nella mia esperienza in studio mi è capitato varie volte di incontrare bambini o adolescenti figli di professionisti, intellettuali, professori che avevano percorsi scolastici disastrosi.

Accade che le  aspettative personali  non vengano esaudite,  pensiamo che il bambino prenderà una strada e spesso invece ne segue un’altra completamente diversa, o a volte nessuna perché è confuso, pensare che anticipare l’ingresso alla scuola materna ne farà automaticamente alunni con  quozienti d’intelligenza superiori alla media è un’utopia, a volte avviene il contrario sono  adulti che hanno difficoltà, perché hanno sempre dovuto correre, sforzarsi di vivere situazioni che non sono in armonia con il loro sviluppo,  l’anticipo non gioca sempre a favore del bambino. Un esempio breve: il bambino ha 5 anni e la maestra dice che non sta fermo un secondo, non sta seduto, non ascolta.

Ascoltare è uno sforzo! È probabile che il bambino non abbia nessun problema se non quello di non essere ancora pronto per la scuola elementare.

Ovviamente il mio discorso non è assoluto, è vero che ci sono bambini che sanno già leggere e scrivere alla fine della scuola materna questo è indubbio, ma rispetto a quello che è il bisogno del bambino (anche se il bambino sa leggere e scrivere), qual è lo scopo di anticipare l’ingresso alla scuola materna, per prendere prima la laurea? Un tempo i bambini della scuola materna erano tutti coetanei, più o meno avevano la stessa età, oggi si trovano bambini dai 2 anni ai 3 e mezzo.  È un gap enorme per quella fascia di età, un anno è un tempo lunghissimo durante il quale avvengono sviluppi e trasformazioni nel bambino, a livello fisiologico e cognitivo. In effetti imparare a leggere e scrivere in prima elementare è giusto! La prima elementare si frequenta per questo!

Qual è il suo consiglio?

A volte il peso delle nostre aspettative è enorme e difficile da portare per i nostri bambini, anche il nostro sguardo ne è carico, i bambini imparano fin dai primi mesi di vita ad interpretare le nostre emozioni, di conseguenza più crescono più sentono la disapprovazione o la non soddisfazione, i giudizi, i voti a scuola già sono carichi pesanti da gestire, il giudizio dei genitori può diventare frustrante.

Se volete crescere una persona in gamba, indipendentemente da quello che farà da grande, se volete farne un adulto felice e sereno, non potete imporre dei ritmi che non sono del bambino, l’imposizione non è solo verbale è anche nel nostro modo di porci, dei gesti, dei paragoni, di alcune frasi che abbiamo buttato qua e là, dalla modificazione della voce rispetto ad un risultato, un voto, un giudizio negativo avuto a scuola.

Ha ragione Dottoressa Marelli i voti , i giudizi, i paragoni con i fratelli, o con altri compagni, il senso di delusione servono solo a distruggere l’autostima e a fare a pezzi la fiducia in sé stessi.

Noi siamo diventati i mandatari delle felicità dei nostri figli, dobbiamo assicurarci che siano felici. Ma non è il nostro compito, noi possiamo dargli gli strumenti per andare nel mondo, poi loro effettueranno le loro scelte in base a quello che gli abbiamo insegnato, è più importante che un bambino sappia leggere o scrivere in anticipo, oppure che da adulto sappia reagire, abbia gli strumenti per adattarsi in modo sereno ad un mondo che cambia e anche alle situazioni anche più difficili?

Dottoressa quello che lei dice mi colpisce profondamente, quando mio figlio (è bilingue italiano-francese) frequentava la scuola materna io mi occupavo come volontaria della biblioteca, una volta a settimana aiutavamo i bambini a scegliere i libri, in realtà li lasciavamo liberi di farlo, poi scelto il libro ognuno doveva scrivere il proprio nome, come firma del  prestito del libro. Mio figlio non riusciva a scriverlo il suo benedetto nome.

Io ero preoccupatissima, cercavo di allenarlo a casa la sera, facevo come mia madre, mettevo la mia mano sopra la sua e cercavo di fargli scrivere almeno le prime tre lettere. Non ci posso pensare! Chissà quante volte avrà visto il mio sguardo preoccupato (pensavo che non avrebbe mai imparato a scrivere!).

Cosa è successo? A 6 – 7 anni leggeva in francese e in italiano. Alla scuola media ha scelto un percorso linguistico: ora scrive in tedesco, francese, inglese e …italiano. Parla italiano con forte accento francese, parla francese senza alcun accento.  Ha una passione smodata per il tedesco lingua difficile da leggere e figuriamoci da scrivere. Ha ragione Dottoressa Marelli a volte pretendiamo troppo, senza attendere i loro normalissimi tempi.  Siamo noi che dovremmo smettere di farci prendere  dall’ansia anticipatoria, perché poi alla fine ci sorprendono ognuno con le proprie capacità.

Esatto dobbiamo semplicemente lasciare che siano loro stessi.

Alcuni amano disegnare, lo sport, altri non hanno preferenze. Il valore della persona non è costruito su ciò che fa, già da piccolo, il valore della persona è costruito in base a quello che   è.

 

 

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Un mondo migliore è possibile se rivolgiamo lo sguardo in quello che di buono già c’è e lo valorizziamo

Una riflessione di PAOLA CIPRIANO

Una delle passioni che abbiamo in comune, io e mia figlia, sono i libri.

Frequentiamo assiduamente la biblioteca di zona: ore insieme trascorse a cercare, sfogliare, leggere i meravigliosi libri esposti.
Qualche giorno fa, entrando nella saletta dedicata ai bambini, abbiamo trovato una scena tristissima: libri buttati per terra, calpestati e maltrattati. Bambini di circa dieci anni che sghignazzavano mentre le rispettive mamme si alternavano tra chiacchiere con le amiche e cellulare.

 

A vedere quei libri per terra mi è salito il magone, Chiara ha sgranato gli occhi.
Arriva la bibliotecaria che, con tono giustamente arrabbiato, riprende le mamme: “Mamme ma che vergogna.. la biblioteca non è una ludoteca, abbiate rispetto! ”
Tutte la guardano come se fosse un marziano sbucato fuori all’improvviso. Con aria di sufficienza distolgono lo sguardo e continuano a fissare lo schermo del cellulare.
Come se niente fosse.
È un attimo. Senza che dicessi nulla mia figlia si alza e, uno dopo l’altro, inizia a raccogliere i libri abbandonati per terra dai bambini che hanno quasi il triplo della sua età.
Li sistema e poi soddisfatta torna da me.
Il mio cuore esplode di orgoglio, ovviamente.
In realtà ciò che più mi colpisce e mi fa riflettere è la reazione della signora.
Si avvicina a mia figlia, si abbassa e guardandola negli occhi la ringrazia. La prende per mano, la porta nel suo ufficio e le regala una sua sacca a tracolla e un libro.
Chiara è orgogliosissima.
Felice, piena di un riconoscimento che un adulto le ha dato.
Ecco pensavo a questo: quanta responsabilità abbiamo noi adulti, tutti, anche chi figli non ne ha, nei confronti dei bambini. La bibliotecaria avrebbe potuto lasciar cadere nel vuoto quel bellissimo gesto, spontaneo (e quindi ancor più prezioso) di una treenne.
Senza riconoscimento le belle azioni, i profondi valori, non hanno senso. Non esistono, smettono di brillare. Non si ripetono. Un mondo migliore è possibile se rivolgiamo lo sguardo in quello che di buono già c’è e lo valorizziamo. Lo Riconosciamo, confermandolo nella sua esistenza. Il vero insegnamento per mia figlia è stato questo. All’uscita dalla biblioteca ha detto: “Io ho aiutato la signora e lei è stata gentile con me”.
Tradotto: l’amore porta amore.

 

PAOLA CIPRIANO

Conversazione con la Dottoressa Alessandra Marelli Psicoterapeuta

Dottoressa Marelli lei è una psicoterapeuta a quale tipo di orientamento terapeutico fa riferimento?

Sono una psicoterapeuta di orientamento  gestaltico, Emdr primo e secondo livello, mi occupo anche di grandi e piccoli traumi, lavoro con i bambini, gli adulti e le coppie.

Mi occupo anche di supervisioni all’interno di asili nido e scuole materne e di formazione specifica per gli operatori d’infanzia (educatori, maestre e insegnanti)

 

 

 

 

 

Sono anche Presidente di ASIPP (Associazione Scientifica Italiana di Psicologia Perinatale)

Che vuol dire orientamento gestaltico?

L’approccio gestaltico  (da Gestalt [1]) rientra tendenzialmente nel filone psicodinamico, non si limita quindi a curare o a modificare  un comportamento, ma tende a capire quali siano  le origini di quel sintomo , di quel comportamento che diventa disadattivo in un periodo particolare della vita di una persona. Lo scopo è quello di ripristinare l’equilibrio lavorando alla base del sintomo e non sul sintomo in sé stesso.

È un approccio completo che considera la globalità della persona, la mente, la parte emotiva, e porta l’attenzione anche sul corpo, la postura, il modo di parlare, di sedersi, come si sta nel mondo attraverso il proprio corpo.

Io sono anche una psicoterapeuta EMDR  e d ho trovato in questi due modelli un concetto fondamentale che li accomuna: la persona è una struttura unitaria e va vista nel suo insieme, sempre.

Mi soffermo sulla sua attività nelle scuole, cosa intende per  “supervisioni educative”?

In pratica mi occupo dei casi di bambini, con qualche problema particolare, che mi vengono indicati dal corpo insegnante, ma soprattutto mi occupo del benessere generale dell’equipe, credo che sia fondamentale occuparsi degli insegnanti, dalla loro serenità dipende anche il miglioramento del lavoro educativo e di conseguenza anche il benessere dei bambini.

Credo che sia sostenere e supportare gli insegnanti in modo che qualsiasi frustrazione o problema venga risolta o attenuata prima che si ripercuota sul lavoro, e quindi inevitabilmente abbia un impatto sui bambini.

Credo che questo suo intervento e supporto agli insegnanti sia fondamentale Dottoressa Marelli, e rispecchi anche un ‘esigenza molto attuale e dibattuta. Ora le pongo una domanda apparentemente facile ma la “obbliga” a raccontarmi un po’ la sua storia: perché ha scelto di fare questo lavoro?

Ah che domanda!

Parto dal presupposto che ho sempre pensato di fare la psicoterapeuta. Ma prima di approdare veramente alla mia professione ho avuto l’esigenza di vivere esperienze completamente diverse. Non faccio parte di coloro che hanno rispettato tutte le tappe in maniera regolare, ho fatto molti altri lavori (gestione di un locale, istruttrice di nuoto) che apparentemente non avevano alcuna relazione con la psicologia, ho viaggiato molto e anche vissuto all’estero (negli Stati Uniti, in Spagna), mi sono costruita un bagaglio di esperienze anche difficili ma che fanno di me la persona che sono oggi, la professionista che sono oggi.

In tutto questo viaggiare e svolgere anche lavori molto lontani dalla vocazione psicologica, mi sono resa conto che ovunque andassi, qualunque cosa facessi, mi tornava in mente questo desiderio di poter aiutare gli altri a stare meglio. Mi sono laureata tardi e la mia laurea l’ho conseguita lavorando a tempo pieno in una comunità per minori, questa per me è una delle più belle conquiste della mia vita, ho ottenuto un risultato importante, la mia laurea, in breve tempo affrontando enormi sacrifici. Ho costruito la mia carriera, la mia indipendenza con le mie sole forze e questo sono felice di dirlo: mi rende davvero fiera.

Ho capito in seguito che tutte le esperienze vissute, così lontane da quella che era la mia vocazione, oggi rappresentano un bagaglio utilissimo per la mia professione, mi aiutano comprendere meglio anche i miei pazienti, ad empatizzare,  perché molte esperienze le ho vissute personalmente.

Dottoressa Marelli nei prossimi articoli entreremo un po’ più nel dettaglio della Psicologia Perinatale, lei perché ha scelto questo tipo di specializzazione?

Ho partecipato ad un Corso di Alta Formazione Professionale, riguardante la Psicologia Perinatale. e nel corso di questa formazione ho conosciuto due colleghe con le quali ho subito condiviso l’idea di sviluppare questo tema, e grazie a questa passione comune abbiamo creato ASIPP (Associazione Scientifica Italiana di Psicologia Perinatale).

https://asipp.wordpress.com/

Abbiamo fondato l’associazione perché ci siamo rese conto che c’è molta disinformazione e molti pregiudizi su l‘essere madre, è come se esistessero due fazioni quasi opposte: da una parte la mamma “ad altissimo contatto”, allattamento prolungato, co-sleeping, e dall’altra parte la mamma che opta per la massima autonomia: il bambino subito nel lettino nella sua stanza, nessun allattamento al seno.

A noi non interessa giudicare, non ci sono mamme di serie A o serie B, ci interessa andare oltre le credenze e i pregiudizi, ci interessa fare un po’ di chiarezza ricordando che esiste una fisiologia del bambino che va rispettata e che è associata anche alla psicologia. Vogliamo porre anche l’attenzione sul fatto che esiste il bambino ma anche la madre, anzi la donna, che deve costruirsi i il ruolo di madre, e deve avere la forza di accettare l’ambivalenza che c’è in questo ruolo, di accettare il fatto che il picco di felicità del sentirsi madre non sarà sempre a livelli altissimi, che ci saranno momenti di sconforto, di stanchezza e che questo non le trasforma in madri inadeguate. Cerchiamo di far accettare tutto questo alle donne-madri dando nozioni di base di fisiologia, ma soprattutto lasciandole libere di decidere di essere madri come loro sentono di esserlo, senza alcun precetto, senza quel dubbio continuo di essere sbagliate.

Dottoressa lei organizza anche dei seminari informativi per genitori?

Sì, organizzo anche dei seminari formativi su alcuni temi che li riguardano molto da vicino come per esempio i capricci dei bambini, oppure un altro tema sul quale sto lavorando per il prossimo incontro è quello sull’autonomia, capire perché molti genitori decidono di iscrivere i bambini molto piccoli alla scuola materna facendoli entrare come anticipatari (ora la legge lo permette), per poi far iniziare prima elementari in anticipo.

Di chi è l’esigenza? È un’esigenza del bambino? Ci sono dei vantaggi?

Vorrei far capire che non si possono bruciare le tappe fisiologiche e che quello che viene sottratto in un ‘età così importante è bambino è qualcosa che mancherà al bambino che andrà poi a cercare in altre cose… continua nei prossimi articoli.

Grazie Dottoressa quest’ultimo tema mi sembra molto interessante e soprattutto attuale, vogliamo parlarne nel prossimo articolo?

A presto

 

 

 

 

Studio a Senago

VIA SARAGAT, 11 – 20030 – SENAGO 20030 – SENAGO (MI)

333/2328688(DAL LUNEDÌ AL VENERDÌ)

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333/2328688 (DALLE 09:00 ALLE 19:00

Studio a Bollate

Presso il Centro Pediatrico Itaca

VIA S. PELLICO 11/B,

20030 – BOLLATE (MI)

 

[1] Gestalt therapy  creata da Friedrich Perls negli anni ‘50

Il vuoto

È successo credo almeno una volta a tutti i genitori.

Per quanto attenti , per quanto pensiamo di avere 4 -8 – 10 occhi, per quanto diciamo “ah no a me non può succedere”, invece avviene magari una volta sola, ma succede che li perdiamo di vista un nanosecondo, quel tempo brevissimo di non vita, perché tutto in noi si blocca, il respiro, la vista…la vita.

Come immagine ho scelto questa specie di nulla, di vuoto per rappresentare quello che si prova, dentro.
Preso dalla Dottoressa Paola Cipriano.

“Non mi era mai successo in 6 anni e mezzo ma oggi, per dieci minuti, ti ho persa.
Tra tante persone, in quella che era una bella giornata di festa di primavera, ti ho persa.
All’improvviso i colori intorno mi davano la nausea, i volti mi parevano fantocci o potenziali nemici.
Il mondo si è fermato, tutto all’improvviso ha smesso di esistere. Come quando schiacci pausa sul telecomando. Come quando immergi la testa sott’acqua e i rumori esterni diventano lontani, ovattati.
All’improvviso percepivo solo me stessa che ero diventata terrore. Il cuore, il respiro. Apnea.
Forse sono stati meno di dieci minuti ma son sembrati eterni.
Alla fine niente di grave, tu dietro a dei giochi, tranquilla.
Ho dovuto prendermi del tempo. Mi sono allontanata. E poi ho pianto.
Ho pensato alla mente di una madre, come reagisce a fronte della paura ancestrale. Quella che non ci diciamo mai.
La paura che questo amore, così profondo, possano rubartelo.
E per una frazione di secondo, mentre respiravo e ti baciavo la guancia perché avevo bisogno di sentire che eri davvero tu, ho pensato che non sarei sopravvissuta.”

Paola Cipriano

Vorrei tanto avere un figlio…

Vorrei tanto avere un figlio ma ho paura!

Dottoressa Cipriano chissà quante volte avrà sentito quest’affermazione.

Conosco donne che dichiarano di non avere desiderato altro nella vita e sembrano non avere dubbi, ma ne conosco altre che invece che pur non escludendone la possibilità sono piene di dubbi, di insicurezze, di sentimenti di inadeguatezza. Secondo la sua esperienza cosa spaventa di più?

Per prima cosa spaventa il fatto che si vive un passaggio importantissimo, cioè si passa da figlio a genitore.

E questo cosa comporta?

Comporta una maggior maturità, una maggior responsabilità e poi c’è quel “per sempre”, che non vuol dire che ti occuperai di tuo figlio per sempre, ma che sarai genitore per sempre. 

Il passar dall’altra parte della barricata può anche evocare la paura di essere giudicati, perché finché non si diventa genitori le scelte riguardano solo la singola persona, che può anche  vivere senza esporsi mai,  con un figlio si è obbligati  ad entrare  nel mondo,  improvvisamente  aumenta la visibilità e di conseguenza anche la possibilità di essere giudicati per ciò che si fa , l’idea che il figlio sia anche il prodotto di quanto uno sia stato sufficientemente bravo o meno, può condizionare molto. E se si ha un vissuto d’insicurezza, se si pensa di non riuscire mai a portare a termine un progetto, anche solo l’idea di avere un figlio può attivare un senso di inadeguatezza.

Si pensa di non potercela fare.

Quindi Dottoressa un figlio rompe ogni schema, impone delle responsabilità, detronizza dal ruolo di solo “figli” e poi ci getta nella più grande incertezza, non possiamo prevedere NULLA!

Grazie Adriana introduci proprio un concetto fondamentale: il salto nel buio

Un figlio è un salto nel buio perché non sai come andrà la gravidanza;

non sai come sarà il parto;

non sai se sarà sano;

non sai cosa gli succederà nella vita;

puoi immaginare, investire con progetti mentali, speranze metterci un grande impegno… ma il risultato ce l’avrai dopo tanto tempo, se così si può dire, bisogna tollerare l’incertezza. Immaginiamo di seminare e attendere con pazienza che dai semi cresca una meravigliosa pianta.  È un continuo confronto con i propri limiti, con il fatto che non possiamo tenere sotto controllo quasi nulla né l’andamento della gravidanza, né la salute del bambino, certo noi possiamo fare delle scelte di buon senso non bere, non fumare condurre una vita sana, ma non sappiamo come andrà a finire,

È un processo autonomo, che distrugge la nostra illusione di poter tenere sotto controllo le cose, è un banco di prova!

E infine Dottoressa credo che molte paure siano insite nel nostro essere figli, nel senso che se non abbiamo avuto un’infanzia serena forse questo può fortemente influire sulla paura di avere un figlio.

In effetti il rapporto con i propri genitori può giocare un ruolo fondamentale nella paura e nel desiderio o meno di avere figli, senza entrare in questa sede in esperienze fortemente traumatiche, se una persona ha un vissuto “faticoso” come figlio per varie ragioni: i genitori hanno divorziato; la madre era molto depressa; i genitori litigavano spesso e magari i litigi vertevano proprio sulla gestione dei figli, queste esperienze rimangono nella memoria.

E se non rimangono nitide perché magari vissute nella prima infanzia, rimane la loro impronta e a volte malgrado il desiderio di avere figli, si rinuncia per la paura di ripercorrere la stessa strada dei genitori.

 

La gravidanza: un momento evolutivo

La gravidanza è un momento particolare della vita di una donna, il concetto può sembrare banale ma non lo è affatto secondo me, soprattutto se si esce dall’iconografia della pubblicità che fa apparire tutto rosa o azzurro , tutto semplice, tutto “scarpette fatte ai ferri” e basta.

Non c’è solo questo, bisogna dare un nome alle cose e alle emozioni, questo rende la vita più difficile? Certo, ma fa più male nascondere la realtà dietro una facciata di totale felicità.

Qualsiasi esperienza ha un impatto sulla nostra vita psichica e pratica, credo che la gravidanza sia una delle esperienze più “estreme” se non addirittura la più estrema di tutte, come dice la Dottoressa Cipriano, per un periodo siamo 2 in  1, non esiste nessuna esperienza di vita comparabile al dare vita ad un altro essere e portarlo in sé.

Inizialmente questo articolo doveva aprirsi con una  domanda  “gravidanza programmata e non programmata, quali differenze nel vissuto di una donna?” ma poi le risposte della Dottoressa mi hanno capire che è molto più giusto parlare di gravidanza in generale perché non esistono leggi che le dividano nettamente, ci possono essere delle differenze ma tutto dipende dalla persona, dalla sua storia personale, dalla personalità delle donna.

 Quindi detto questo, Dottoressa Cipriano entriamo un po’ più in dettaglio nel tema.

LA GRAVIDANZA

Partiamo un concetto fondamentale: la  gravidanza è un momento evolutivo, un momento di crisi, sì proprio di crisi, perché alla parola crisi non dobbiamo dare né un’accezione positiva né negativa, è crisi quando si rompe un equilibrio.

In effetti la gravidanza  è un momento di rottura di un equilibrio e la costruzione di un nuovo, perché una donna deve costruire una nuova identità che prima non c’era. I momenti di passaggio, di crisi sono delicati, si corre sempre il rischio di  distorsioni psico- patologiche, perché nella costruzione di una nuova identità possono  tornare a galla storie irrisolte con i propri genitori, oppure della propria storia  personale,  è il momento in cui la donna deve riuscire a risolvere gli eventuali conflitti.

Immaginiamo un bivio o si segue un percorso in cui alcune questioni irrisolte tornano a galla e la donna sta male e deve far di tutto per non abbandonarsi e prendersi cura di queste parti, oppure  ne segue un altro, e la gravidanza è l’occasione per effettuare un passaggio maturativo

In effetti la gravidanza  è  proprio un passaggio maturativo che  non si conclude con il parto, ma  è un percorso che si realizza di pari passo con tutte le varie tappe evolutive del bambino.

Dottoressa ho l’impressione che ci stia dicendo come è giusto che sia che la gravidanza e quindi la nascita di un figlio è un’esperienza irreversibile non solo praticamente ma anche psicologicamente?

Esatto, la gravidanza  è un punto di non ritorno, bisogna affiancare a questa esperienza  il concetto di lutto anche se sembra paradossale,  perché tutto quello che c’era prima nella vita della donna, non ci sarà mai più, è questo è assolutamente indipendente dal fatto che il figlio sia stato programmato o meno.

In realtà nella nostra vita viviamo diverse volte “punti di non ritorno”, per esempio quando approdiamo nell’adolescenza, quel momento di passaggio a volte così impattante in cui dobbiamo salutare la bambina che eravamo e non saremo mai più. E ancora un altro punto di non ritorno è proprio quando abbiamo un figlio e da quel momento non saremo mai più una donna senza figli, perché è indubbio che si è madri per sempre.

Proprio perché c‘è un punto di non ritorno che si usa la parola lutto .

Insomma è una fine e un inizio, tutto un percorso da costruire e allora come affrontarlo ?

La vera  sfida sta nel  ritrovare un punto di equilibrio tra la nuova identità materna e l’identità femminile, è importante che il sé femminile trovi uno spazio, una sua possibilità di esprimersi proprio per  non essere sbilanciati  in questa costruzione di identità , è necessario  fare in modo che tutte le parti, possano attivarsi. Anche il corpo cambia, durante e dopo il parto, oggi molte riescono a tornare “come prima”, altre no e anche quello è una passaggio, un cambiamento che in alcuni casi può essere difficile da accettare.

Quando è nato mio figlio è cambiato il rapporto  con mia madre, non ero più solo figlia ero anche madre anche in questo si cambia. Dottoressa ci parli di questi lunghi 9 mesi, come li vive la futura mamma? Quando inizia la sua relazione con il bambino?

Con la gravidanza si  passare dall’altra parte delle barricata, si acquisisce  una funzione genitoriale , è un periodo di grande impegno per una donna perché è impegnata non solo a far spazio al bambino nel suo corpo, ma anche nella sua mente,  e con il tempo il  bambino  è sempre più “pensato” e questo immaginario è importante perché la gravidanza è lunga e i 9 mesi servono proprio  prima ad abituarla al fatto di essere incinta e poi  di aspettare un bambino, perché anche se sembra strano sono  due cose diverse .

All’inizio,  nelle prime settimane, la donna è concentrata sulla sua condizione di essere incinta, deve dirlo sul luogo di lavoro lavoro, deve annunciarlo alla famiglia, deve anche convincersene  lei stessa!

Di solito inizia a immaginare il bambino dal terzo mese in poi, è da questo momento che inizia a costruire il legame emotivo immaginario con questa vita, il bambino  inizia ad avere un volto,  (viene detto il bambino della notte), anche nella mente si fa spazio il pensiero del bambino, i nove mesi servono anche a questo, a sentirlo come una vita che fa parte di lei. Il tempo per poter  “far spazio”, permette di accogliere questo bambino emotivamente e simbolicamente  e questo facilita l’accoglienza dopo la nascita.

Immagino che anche qui ci sia un altro momento di grande impatto

Certamente perché  dopo la nascita dovrà  affrontare un’altra separazione:  deve lasciare questa condizione pazzesca e incredibile dell’essere incinta, quest’esperienza emotivamente fortissima e potente dell’essere due in uno. Deve elaborare questa separazione e deve elaborare  anche il fatto che il  bambino che è nato non è quello che ha immaginato, è quello reale, deve salutare quello immaginario e accogliere quello reale.

Quindi tornando al nostro tema iniziale in effetti non ci sono molte differenze tra gravidanza programma e non.

Non potrei considerare una differenza così netta, può essere che se la gravidanza è desiderata, se è stata programmata può essere che sia più semplice superare  questi passaggi, ma non c’è nulla di  automatico,  in entrambi i casi dipende  da come la donna affronta la situazione .Durante la gravidanza i, in alcune donne, possono emergere delle ferite antiche nel rapporto con la madre, nel suo essere figlia che non sono state elaborate  e nella gravidanza non programmata è possibile che ci siano più difficoltà nell’accoglienza, ma tutto dipende anche dalla donna, dall’elasticità , dalla capicità di affrontare le situazioni.

Un autore  aveva distinto, diversi  “stili”  materni, lo stile  materno è quello che influenza le aspettative, le fantasie, e anche la relazione tra madre e bambino

E quindi distingueva “ la madre facilitante” che vive la maternità  in modo positivo, è  luminosa e costruisce con facilità un’identità materna, accetta tutti i cambiamenti, si modella a questa nuova vita senza grandi resistenze.

Diversamente dalla  “madre regolatrice” che si  basa sul controllo, che fa fatica ad accettare le modificazioni del corpo,  una donna  che spesso percepisce il bambino come un intruso.

Dottoressa tra la facilitante  e la regolatrice c’è una via di mezzo, ci sono tante donne che pur sentendosi a tratti super mamme, a tratti completamente inadeguate , vivono i nove mesi e la nascita sempre con tanta energia, dubbi, amore e timore per questa nuova responsabilità 

 

 

 

 

 

 

 

 

Infatti nel mezzo c’è una donna che accetta il bambino, ma nello stesso tempo accetta anche di essere attraversata da sentimenti di ambivalenza, cioè emozioni negative e positive insieme e a questa ricetta già di per sé abbastanza carica possiamo aggiungere anche un pizzico di malinconia per tutti quei cambiamenti inevitabili, per il corpo che si trasforma in una modalità fino a quel momento sconosciuta e incontrollabile e per tutta quella parte di vita che per un po’ dovrà essere messa da parte. Accanto alla malinconia ci sarà la meraviglia e il timore quel quell’avventura in cui, anche se circondata da amore e persone , lei e il bambino saranno i protagonisti assoluti.

In entrambi i casi quindi , che il bambino sia stato programmato o meno, tutto dipende anche dalla capacità della donna di adattarsi, dalle risorse che ha, dal supporto, dal fatto che abbia o meno una rete di persone, familiari amici che la sostengono, e anche dal rapporto con il partner.

Grazie Dottoressa credo che siamo solo all’inizio di questo viaggio emotivamente intenso della donna che parte dal” bambino pensato” al neonato, continua…

Articolo di Adriana Cigni

 

Tutte le immagini sono prese dal web.

Dottoressa Paola Cipriano riceve
in Viale Ungheria, 28
20138 Milano
Zona Milano Sud, Corvetto, Corso Lodi.
Santa Giulia
Milano
Zona Rogoredo
Telefono:
344 340.06.16       mail:   [email protected]

Gestione dell’ansia. Ansia e respirazione. Incontri con la Dottoressa Tagliabue

Ansia  e respirazione.

Dottoressa Tagliabue è un argomento che credo interessi molti lettori. Chi di noi non ha mai vissuto una situazione di grande stress? Vediamo come il binomio ansia -respirazione sia molto legato.

Quando parliamo d’ansia dobbiamo necessariamente parlare di RESPIRAZIONE:   quando ci troviamo in una  situazione di stress  elevato, quando ad esempio il livello di ansia supera la soglia di tolleranza,  anche i gesti quotidiani  e involontari come il respirare si modificano.  In particolare può capitare di sperimentare tachicardia, affanno e una reale difficoltà a respirare, potremmo dire: “ci  manca l’aria”.

 

Mi permetto di intervenire perché conosco bene la sgradevole sensazione della mancanza d’aria, della difficoltà a compensare battito cardiaco e respirazione. Ricordo benissimo il giorno in cui ho deciso che dovevo fare qualcosa, ero per strada e ad un certo momento ho pensato di non riuscire più a riprendere il ritmo normale. Consiglio vivamente a chi vive questa situazione di fare qualcosa, di agire, cosa bisogna fare Dottoressa?

Se noi riusciamo ad agire repentinamente per ripristinare una respirazione controllata, possiamo riportare il battito cardiaco e quindi il ritmo della respirazione sotto controllo e di conseguenza anche l’ossigenazione. Esiste una tecnica immediata adatta al controllo e alla gestione dell’ansia: si parla proprio di tecnica di respirazione controllata.

È un esercizio da eseguire almeno 5 volte nell’arco della giornata e consiste dapprima nel fare un respiro profondo e poi 5 secondi di apnea e successivamente attuare 10 respirazioni controllate, ossia effettuando le consuete espirazioni ed inspirazione seguendo un conteggio.  Mi spiego meglio: fare una inspirazione contando mentalmente 1001, 1002 , 1003 e poi espirare proseguendo il conteggio mentale 1004 1005 1006. Così il respiro completo controllato durerà 6 secondi e in un minuto si effettueranno 10 respirazioni.

Dottoressa so che descrivere ciò che lei insegna nella pratica, soprattutto trattandosi di respirazione, è molto difficile, avendo il soggetto davanti lei sicuramente può far comprendere come controllare il respiro ma le chiedo ugualmente di spiegarci meglio cosa si dovrebbe fare nei momenti in cui ci sembra che il cuore batta all’impazzata e la respirazione è difficoltosa.

Innanzitutto quando si riconosce di trovarsi in una situazione di affanno dovuta ad uno stato di forte ansia, la prima cosa da fare è mettersi in una posizione di sicurezza interrompendo immediatamente  qualsiasi attività nella quale si è impegnati, cioè ad esempio appoggiarsi ad una parete, mettersi seduto, fermare l’auto se si sta guidando. Successivamente concentrarsi sulla respirazione e fare un respiro profondo (rumoroso e con una espirazione lunga) e in ultimo inspirare ed espirare 10 volte seguendo il conteggio da 1001 a 1006, cioè in 6 secondi.

È una tecnica alla quale possono ricorrere tutti nel momento in cui ne hanno bisogno e permette anche di avere una maggiore consapevolezza del proprio corpo, del  modo di essere e quindi di vivere. È uno strumento rapido ed efficace, soprattutto nelle emergenze come ad esempio attacchi di panico e può anche sostituire le terapie ansiolitiche farmacologiche.

Articolo di Adriana Cigni

 

Dottoressa Daniela Tagliabue

Daniela Tagliabue cel 340-7712729

[email protected]

sede di Cesano Maderno via Valgardena 3

sede di Milano via Zurigo 28 – piazza Wagner 2

 

GESTIONE DELL’ANSIA, incontri con la Dottoressa Daniela Tagliabue

GESTIONE DELL’ANSIA, incontri con la Dottoressa Daniela Tagliabue

Questo sarà il primo articolo che ci introdurrà nel tema della gestione dell’ansia.

TRAINING AUTOGENO (TA)

Tutti ne parlano, quanti sanno gestirla?

“L’ansia è uno status normale della nostra condotta, se controllata e tenuta negli standard accettabili ci aiuta  a gestire le nuove situazioni e i cambiamenti, ma quando l’ansia supera la soglia al punto da bloccare le nostre azioni e / o provocare un vero proprio malessere  (provocando ad esempio paura, sudorazione, tachicardia, senso di soffocamento, problemi di respirazione) allora è necessario correre ai ripari, prima che questi sintomi si cronicizzino o si trasformino in veri e propri disturbi  “

Ho chiesto quindi alla Dottoressa Tagliabue quali sono le tecniche che possono aiutarci a gestire l’ansia.

Ci sono diverse tecniche che hanno come obiettivo la gestione e l’abbassamento dell’ansia, comincerei parlandovi del TRAINING AUTOGENO (T.A.).

Il training autogeno è una delle tecniche di rilassamento più diffusa e praticata. È finalizzata proprio al recupero energetico e mentale,ad eliminare l’ansia, l’insonnia e lo stress. Personalmente lo considero il metodo ideale per potenziare il benessere psico-fisico e tenere in allenamento mente e corpo, perché si lavora in contemporanea su entrambi.

Ci può spiegare meglio in cosa consiste e a chi è rivolto?

È una tecnica di autodistensione che contribuisce efficacemente all’equilibrio psicofisico: è un metodo di rilassamento che coinvolge la persona proprio nel suo complesso ed è composta da particolari esercizi che devono essere appresi in modo graduale ed essere attivati con un allenamento costante.

Infatti proprio attraverso l’allenamento=training si può raggiungere uno stato mentale che si genera da sé= autogeno. Più ci si allena, più questo stato mentale di rilassamento si sviluppa e favorisce sia  l’autodistensione sia la normalizzazione delle funzioni fisiche e psichiche e sicuramente aiuta ad avere una maggior conoscenza del funzionamento del proprio corpo.

Si rivolge principalmente agli adulti, ma può essere praticato anche con gli adolescenti. È alla portata tutti, perché è semplice da imparare ed è proprio indirizzato a coloro che devono affrontare o risolvere sintomatologie di origine psicosomatica, sciogliere ansia e paure, e sentono l’esigenza di migliorare la propria salute e aumentare il benessere psicofisico.

In particolare, a cosa serve?

I benefici del training autogeno sono molteplici e a diversi livelli: fisico, psicologico, comportamentale. Si ha la possibilità di raggiungere in pochi secondi uno stato di calma e di ridurre il livello di tensione accumulato. In particolare il T.A. è utile per

  • abbassare i livelli di ansia generalizzata;
  • potenziare le capacità di recupero dell’energia e aumentare i livelli di energia;
  • migliorare la capacità di addormentarsi facilmente, utile per chi ha problemi di insonnia e favorisce il ripristino ciclo sonno-veglia;
  • riduzione della percezione delle sensazioni dolorose, ad esempio emicrania e cefalea ed è anche utilizzato con successo nella preparazione al parto.
  • migliorare la capacità di autocontrollo emotivo di fronte ad eventi stressanti, perché una caratteristica del training autogeno è che possiamo metterlo in atto più o meno ovunque e nel momento in cui ci accorgiamo che e siamo in balia di un evento stressante, possiamo usufruirne e quindi miglioriamo le nostre capacità.
  • distaccarsi momentaneamente dai problemi contingenti e poterli vedere da un altro punto di vista (in questo è molto simile alla mindfulness (ne tratteremo in un prossimo articolo, nota di Adri)

Ultimo, ma non meno importante, il potenziamento delle funzioni mentali, perché è stato verificato che il T.A. aumenta la capacità di concentrazione e la memoria, perché abbassando l’ansia si recuperanole energie e a livello mentale.

Dottoressa Tagliabue lei effettua corsi di training autogeno?

Sì, ormai da diversi anni conduco dei corsi individuali e di gruppo,  quest’ultima modalità è particolarmente interessante perché diventa anche un’esperienza completa in quanto oltre al coinvolgimento individuale ci si relaziona e ci si confronta.

Ma quando è nato il training autogeno?

Il training autogeno nasce negli anni ’30 da Johannes Heinrich Schultz un medico neurologotedesco, che mise a punto questa tecnica con l’obiettivo di favorire il rilassamento totale della mente e del corpo.

È composta da una serie di esercizi che devono essere appresi ed eseguiti in ordine perché ognuno ha uno scopo preciso, il primo, l’esercizio della calma, come base di rilassamento, poi quello della pesantezza, del calore, quello del cuore, del respiro, del plesso solare e in ultimo della fronte fresca

Ci si concentra su una parte del corpo differente per ogni tappa e si lavora per rilassarla. In questa pratica la respirazione ha un ruolo fondamentale proprio perché si agisce sui muscoli ed è necessario allenarsi seguendo l’esatta successione di tappe, perché solo in questo modo si può arrivare ad un livello massimo di rilassamento che genera energia e aiuta ad abbassare il livello di ansia e di stress.

Allora Dottoressa riassumendo: per praticare il training autogeno dobbiamo seguire un corso, perché è necessario avere una “guida” che ci insegni la pratica e le varie tappe. Ma quanto tempo ci vuole e poi una volta finito i corso come possiamo utilizzare quello che abbiamo imparato?

Per imparare questa tecnica è necessario seguire un ciclo d’incontri (da 5 a 8) durante i quali e al termine del percorso è importante continuare ad allenarsi. È fondamentale mantenere l’ordine delle tappe perché l’una è propedeutica all’altra, la loro successione serve ad arrivare ad un determinato stadio di rilassamento. Più ci alleniamo,più impariamo a metterlo in pratica nella nostra vita quotidiana, per superare gli stress legati alla routine. Per esempio io lo consiglio sempre a chi ha qualche problema a viaggiare in metropolitana o a stare in luoghi chiusi, si può applicare subito ovunque, nessuno se ne accorge ed è molto efficace.

Ma Dottoressa davvero possiamo utilizzarla dove vogliamo, il training autogeno non si pratica distesi? Com’è possibile che nessuno se ne accorga?

La posizione tipica è quella supina ovviamente, ed la posizione prescelta in cui imparare il metodo del T.A.,  ma si può fare anche seduti. Infatti, una volta imparata la pratica e quindiuna volta diventati esperti, possiamo applicarla in ogni luogo quando ne abbiamo bisogno.

Tutte le immagini sono prese dal web

Articolo di Adriana Cigni

Per informazioni sui prossimi incontri di T.A. o per contattarmi:

Dottoressa Daniela Tagliabue

Daniela Tagliabue cel 340-7712729

[email protected]

sede di Cesano Maderno via Valgardena 3

sede di Milano via Zurigo 28 – piazza Wagner 2

Mutismo selettivo: quale terapia?

Centro Medico MEDIPLUS s.n.c.
Via Val Gardena 3
Cesano Maderno (MB)

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+0362545610

 +39 3382829684

 

 

D: Dottoressa Gorla, parte dei nostri lettori sono genitori “assetati” di consigli e informazioni, credo che quest’ultimo concetto da lei sviluppato sia fondamentale: muoversi, attivarsi, il mutismo selettivo non si risolve lasciando le cose come stanno “tanto poi col tempo parlerà”. Credo che sia un sollievo sapere che si possa agire. Ora il passo successivo immagino sia: i genitori le telefonano e fissano un appuntamento, ci guidi nelle prossime fasi.

Io lavoro in questo modo: durante il primo appuntamento incontro solo i genitori e inizio a fare un inquadramento diagnostico; raccolgo tutti i racconti e le descrizioni pertinenti al bambino, ma anche elementi che riguardano loro, il loro vissuto d’ansia, della famiglia allargata, ricostruisco un po’ la loro storia familiare, che posizione ricopre loro figlio nel sistema e il ruolo del suo silenzio.

continua su http://www.youreduaction.it/terapia-diretta-indiretti-bambini-mutismo-selettivo/

“…ho capito che questo, è l’unico lavoro che avrei voluto fare.” Dottoressa Federica Trivelli Psicoterapeuta a Torino

Le Autrici del libro. È arrivato il momento di conoscerli un po’ più a fondo. Potrà essere utile anche a voi sapere che c’è un riferimento importante nella vostra regione.

A volte siamo noi a sentire l’esigenza di rivolgerci ad uno Psicoterapeuta spesso per risolvere nodi emotivi, o per alleggerirci di retaggi familiari pesanti come macigni, oppure sono i nostri figli a vivere sulla propria pelle un disagio, un blocco e ci perdiamo nella ricerca di qualcuno che possa aiutarci e così scopriamo  quanto sia difficile districarsi nei diversi percorsi terapeutici, forse con questa serie di articoli riusciremo a fare un po’ di chiarezza.

Dottoressa Trivelli lei è una Psicoterapeuta Cognitivo-Evoluzionista può spiegarci cosa significa?

–Nell’ambito del cognitivismo clinico, la Psicoterapia Cognitivo Evoluzionista  coniuga lo studio dei rapporti fra emozione e pensiero con i principi dell’evoluzionismo, dell’etologia e delle neuroscienze.

In pratica sia nella strutturazione del disturbo che nella terapia, viene data molta importanza  non solo ai processi del pensiero, ai pensieri disfunzionali ecc.., ma anche alle emozioni e soprattutto, alle dinamiche relazionali operanti in tutti gli esseri umani fin dalla nascita.

Di particolare importanza risulta essere la relazione che si instaura precocemente tra madre e bambino , e poi bambino e caregivers principali perchè tali relazioni diventano i modelli sui quali le persone costruiscono tutte le successive relazioni con gli altri e anche con sé stessi.

Dottoressa ora parliamo un po’ di lei, quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta a intraprendere un percorso di studi per esercitare una così difficile professione?  

-Sono sempre stata molto interessata all’altro e incline all’ascolto e all’empatia. Nella mia vita, soprattutto nell’adolescenza, ho dovuto superare prove molto difficili e pesanti e questo ha fatto sì che ad un certo momento alle inclinazioni iniziali abbia affiancato l’idea di “ poterne fare qualcosa di tutta questa sofferenza a cui è esposto l’essere umano”.

In verità non posso dire che sia stata una scelta impulsiva e immediata, infatti dopo aver conseguito la maturità linguistica mi è sembrato “naturale” iscrivermi a Lingue, ma poi qualcosa è scattato dentro di me, e ho compreso che i miei interessi erano orientati verso la psicologia,e che quella era la strada da seguire!

Da quel momento non ho più avuto dubbi o ripensamenti, mano a mano che procedevo nello studio di questa disciplina mi convincevo sempre di più di aver fatto la scelta giusta, e oggi lo sono più che mai, posso tranquillamente affermare che questo è l’unico lavoro che avrei voluto fare.

Ora le pongo una domanda alla quale penso spesso quando incontro lei e le sue colleghe : ogni giorno nei vostri studi voi entrate in contatto con emozioni, dolori, disagi, blocchi, traumi gravissimi come abusi, violenze. Avete di fronte a voi persone che si liberano della loro sofferenza. Come fate ad affrontare tutto questo senza assorbire tutto questo, come fate a mantenere un sano distacco professionale?

-Il mio è un lavoro e come tale deve essere vissuto. Se assorbissi tutto sarei vulnerabile e non potrei esercitare correttamente la mia professione. Certo è inevitabile che alcune storie mi colpiscano più profondamente, ma se vogliamo essere terapeutici e contemporaneamente sopravvivere, è necessario imparare a mantenere la giusta distanza emotiva. Ci vuole tempo ed esperienza ma si impara e poi ci si deve circondare di colleghi che possano supportarci e aiutarci e anche colleghi/amici con cui condividere professione e sane risate!

Dottoressa Trivelli possiamo dire senza alcun dubbio che lei è stata, insieme alle  sue colleghe dello  Studio S.m.a.i.l., una delle “pioniere” in Italia  ad occuparsi di Mutismo Selettivo, c’è un motivo particolare che l’ha spinta a specializzarsi su questo disturbo poco conosciuto?

-In verità non c’è un motivo preciso, probabilmente sono stati vari fattori che mi hanno portato ad interessarmi al Mutismo Selettivo fra i quali molto ha contribuito per esempio il fatto di aver avuto un caso di un bambino con MS, poiché il bambino era piccolo seguivo i suoi genitori. Ma credo che il fattore più importante sia stato proprio il fatto che questo disturbo fosse poco conosciuto e studiato,  l’ho visto come una grande sfida, mi piace confrontarmi con questioni complesse e questo mi ha dato veramente la voglia di approfondire l’argomento.

Lei lavora in uno Studio a Torino, proprio per dare informazioni pratiche può dirci se i suoi pazienti sono per la maggior parte bambini, adolescenti o adulti. Ha una specificità?

-Sì lavoro a Torino e non ho una vera e propria specificità seguo bambini, adolescenti e adulti.

Riallacciamoci al Mutismo Selettivo spesso genitori e insegnanti non sanno a chi rivolgersi in caso di bambini con MS, le assicuro che io stessa ricevo richieste di informazioni da parte di genitori, insegnanti, dirigenti scolastici e Uffici scolastici, mi chiedono di organizzare Seminari a volte nell’ambito di una sola Scuola o un determinato Plesso scolastico, lei sarebbe  disponibile a curare dei seminari nella sua città, Torino?

Credo che sarebbe importante informare i nostri lettori che c’è un riferimento importante nella sua città.

La ringrazio Dottoressa Federica Trivelli per la sua disponibilità e a presto per altri interessanti articoli.

Per chi volesse contattare la Dottoressa Trivelli:

il suo Studio è a Torino in Via Duchessa Jolanda 7

[email protected]

+39 3489271632

[email protected]

Per richieste di Seminari nelle vostre scuole potete anche scrivere a me

[email protected]

[email protected]

Caro Babbo Natale…

Caro Babbo Natale,

io credo che forse dovresti un po’ rinnovare  il tuo lavoro.

Certo io non sono nessuno per dare consigli per questo uso il “forse”.

So che sento un disagio, una mancanza di armonia. Ognuno di noi può dare al Natale il significato che vuole anche laico, la rinascita, il ricominciare, il chiudere un ciclo e aprirne un altro. E poi mio figlio è nato a Natale come non dargli un senso?

Per cui ti dico un po’ di cose…

Forse non dovresti più fare distinzione tra bimbi buoni e cattivi, tra quelli che se lo meritano e non se li meritano. Forse dovresti portare doni a quelli che non li hanno mai avuti, ai bambini nati in paesi in guerra e che non sanno cosa sia la pace, quei bambini lì conoscono solo il male, il sangue, la paura, la morte e gli occhi disperati dei loro genitori. Perché non c’è al mondo peggior dolore di non poter  salvare il proprio figlio. I doni portali a loro.

Oppure cambia.

Cambia il rito, l’abitudine, la tradizione.

Babbino caro,

tu sei sempre lì insieme alla Befana e noi vi siamo grati per la gioia , la capacità di sognare e di credere  all’impossibile, ma i tempi sono cambiati, anzi noi siamo cambiati. Abbiamo bisogno di un altro tipo regalo, tutti: grandi e piccini. Noi grandi soprattutto per poterli lasciare ai nostri figli, o diffonderli nel mondo. Non sono regali costosi ma si fa fatica a ritrovarli, nessuno li vende, o ce li insegnano o arrivano direttamente dal nostro cuore.

Più che di cose abbiamo bisogno di speranza, portaci tutti quei sentimenti  che sono patrimonio di tutti, laici e credenti, e che ci restituiscono la nostra umanità nel senso doppio del termine.

Sentimenti che abbiamo un po’ trascurato, riportaci la gioia di guardarci negli occhi e non attraverso uno schermo; portaci la pĭĕtās nel suo significato originario ( affetto, amicizia, dedizione, fedeltà, devozione, i genitori, gli amici, pietà filiale; abnegazione, rettitudine, senso del dovere; clemenza, benevolenza, indulgenza).

Sai i poveri ci sono sempre stati, e ci sono ancora e c’è qualcuno che cerca di nasconderli in questi giorni perché stonano un po’ con i luccichio delle luminarie e degli addobbi scintillanti. Porta anche il senso originario della compassione cum –  patior , comprendere la sofferenza altrui e non nel senso dispregiativo che con tempo gli abbiamo dato.  Babbo i poveri, quelli veri non sono solo i protagonisti delle favole, i poveri esistono, li possiamo incontrare sulle strade a dormire al freddo e al gelo  (come dice la canzone  “Tu scendi dalle stelle…”) oppure sono nelle case normali, hanno un lavoro precario o non ce l’hanno e fingono di condurre una vita normale anche se non sanno come fare per far fronte a tutte le incombenze.  Oppure sono sotto le bombe , o vivono repressi da regimi autoritari e crudeli. I poveri sono esseri umani , non polvere da nascondere sotto un tappeto. A loro e a noi porta la dignità, lavoro e speranza nel futuro.

Riportaci la capacità di amare, la tolleranza, l’empatia, l’amicizia, le risate , il divertimento sano, l’aria pulita, il rispetto per noi stessi, per gli altri e per l’ambiente e per la salute.

Questi sono i regali di cui abbiamo bisogno noi e le nuove generazioni.

Fai lavorare i lutins o elfi, o folletti che dir si voglia che sarà dura.

Adriana

Articoli sul mutismo selettivo: genitori-collaborate- con – gli-insegnanti

Articoli sul mutismo selettivo: genitori-collaborate-gli-insegnanti

Ma mio figlio è allegro, chiacchierone, non si ferma un attimo, parla tutto il giorno”.

Bambini diversi in contesti diversi. La selettività del mutismo riguarda il contesto, l’ambiente, a casa si sente a suo agio, in famiglia l’ansia è a zero o quasi. Fuori ci sono gli estranei che pongono domande, a scuola l’ansia arriva al massimo. In ogni caso viene richiesta una prestazione, anche la più semplice come rispondere “presente” provoca uno stress. Continua a leggere su :

http://www.sguardidiconfine.com/mutismo-selettivo-nei-bimbi-genitori-collaborate-gli-insegnanti/

Articoli sul mutismo selettivo: Senza parole

Il silenzio intriga.
Il silenzio fa paura.
Il silenzio provoca.
Il silenzio invita alla sfida.
Volevo iniziare questo articolo in maniera diversa dal solito “Il Mutismo Selettivo è…”
e mi è venuto in mente di aprire con le emozioni, i sentimenti, di chi vive nell’universo
familiare e scolastico di un bambino o ragazzo che soffre di Mutismo Selettivo.
È indubbio che il silenzio destabilizza, colpevolizza, spaventa, oppure se viene
interpretato come una provocazione, irrita, induce all’insofferenza, alla punizione o
alla sfida “ti farò parlare io”. Continua a leggere su

http://web.mondodiluna.it/bacheca/tracce/senza-parole-cose-mutismo-selettivo/

Articoli sul mutismo selettivo: i genitori, le sorelle, i fratelli

Questa volta vorrei prendere in considerazione questo disturbo legato all’ansia da una prospettiva diversa. Quella di chi vive con un bambino, o con un adolescente che soffre di Mutismo Selettivo vale a dire i genitori, le sorelle, i fratelli.

Ho parlato con tanti genitori per cui ho una vasta gamma di esperienze da raccontare.

Primo impatto: inizio scuola dell’infanzia (a volte anche il nido ma probabilmente è difficile a quell’età diagnosticare il Mutismo Selettivo). Normalmente si viene convocati a scuola dopo un mese o due dall’inizio. continua a leggere:

http://www.youreduaction.it/paura-di-parlare-quando-le-parole-si-incastrano-nella-gola-dei-bambini/

Articoli sul mutismo selettivo: La scuola

Immaginiamo una classe. Una classe di scuola per l’infanzia o elementare. Ma anche una classe di scuola secondaria

C’è un’alunna là in fondo, ha una postura rigida, uno sguardo diverso dagli altri, a volte sembra un cucciolo smarrito, a volte i suoi occhi fissano il vuoto, altre volte ancora invece è attentissima e ascolta con interesse. Non interviene, non alza la mano, non partecipa, forse non ride nemmeno.

Sembra che le costi fatica aprire la bocca per produrre qualsiasi suono, perfino una risata.

Non parla con l’insegnante, non parla con i suoi compagni. Non le piace lo sport, la competizione, l’agonismo. Sembra che il suo unico fine sia rendersi invisibile.

Non è autistica, non ha alcun problema di tipo fisiologico-funzionale che le impedisca di parlare.

Continua a leggere su  http://www.youreduaction.it/bambini-con-mutismo-selettivo-errori-e-comportamenti-da-evitare-in-classe/

Ladri di parole

Qualche giorno fa mio figlio, il francese, mi ha chiesto:

cosa vuol dire “le plagiat”?
Il plagio. Anche se è grandicello in effetti, plagio, non è una parola diffusa nel linguaggio dei ragazzini, sono andata quindi subito sul Larousse francese e gli ho sfornato la definizione: si tratta di plagio quando qualcuno, nell’ambito artistico e letterario, attribuisce a sé stesso quello che ha preso dall’opera di qualcun altro.

Sempre da Larousse, “plagier”, plagiare. Qui Larousse va al sodo del significato indica come “piller”, rubare le opere altrui.

Ho spiegato a mio figlio che non è cosa rara il plagio, soprattutto in letteratura.

Spesso si dice che sono i grandi ad essere plagiati e credo che sia vero. Chi copia=ruba è qualcuno che non ha fantasia, non ha idee, creativamente e mentalmente arido al punto da dover andare a rosicchiare le idee altrui.

Insomma mamma, mi ha detto mio figlio, sono ladri?

In un certo senso sì, rubano parole per rivenderle, quindi danneggiano gli autori originali, e gli editori ma soprattutto prendono in giro lettori che sono l’anello più importante sia questa catena. Il lettore può essere l’artefice del trionfo e del tonfo di un autore.

Che sia una pagina, un’idea o un libro intero non importa: sempre di plagio si tratta.

Caro il mio figliolo, e anche cari i miei giovani scrittori, non copiate, prima di scrivere fate un viaggio dentro il vostro cuore, la vostra anima e la vostra coscienza, non c’è nulla di più esaltante di dare consistenza ai vostri pensieri, alla vostra immaginazione.

E poi oggi con la velocità di diffusione del web essere scoperti è molto più facile e in tempi brevissimi.

Ma come punire i ladri mamma?

Se si tratta di frasi, di idee, neanche le case editrici più famose si addentrano in processo costosi che rovinerebbero anche l’immagine, invece si conta molto sull’intelligenza del lettore.

Il lettore attento se ne accorge e segnala e oggi lo fa senza problemi pubblicamente. Da lì poi il danno è tutto di colui che copia, danno di immagine, di sfiducia nelle prossime opere, di reputazione. Per  plagi più evidenti scatta ovviamente la denuncia, i più severi sono gli americani.

Il lettore sa distinguere, il lettore a volte è più scaltro dell’editore.

immagine presa dal web

 

A lui va il compito di scoprire l’inganno, è lui l’esperto.

Noi possiamo solo aiutarlo a comprendere le differenze…anzi le uguaglianze! E soprattutto tenere gli occhi bene aperti.

 

 

Tutte le immagini sono state prese dal Web

 

Adriana Cigni

Questo non è un articolo , questo è un atto dovuto di ringraziamento.

Per me l’anno va da estate a estate,

foto Adri
21/04/2017
Mondello

È stato un anno particolare, speciale per me. Dal punto di vista personale, della salute, dal punto di vista “interiore”, un anno che ha dato inizio a qualcosa di molto importante e durante il quale ho affrontato esperienze bellissime e prove durissime.

Ho scelto di usare i social e il web, come questo blog per far conoscere le mie iniziative e il mio lavoro evitando al massimo notizie personali, sulla mia famiglia , e sulle mie idee perché non riesco ad adattarmi a questo frastuono, a questo “dalli all’untore”, se esprimi un pensiero in un modo o nell’altro sei accusato di qualcosa. Va bene così, continuo a stare nel mondo, sono informata ma preferisco non entrare nel calderone, probabilmente non  ne avrei l’energia giusta e sicuramente neanche la voglia per affrontarlo. Non è snobismo è proprio incapacità.

Sarà l’età, sarà che ho capito tante cose, sarà che ho scoperto che si può costruire qualcosa e andare incontro agli altri e dare una mano anche nel proprio piccolo universo, senza urlare e senza inveire.

Per me l’anno va da estate a estate, non so perché mi viene più voglia di far bilanci in questo periodo che il 31 dicembre.

È stato un anno particolare, speciale per me. Dal punto di vista personale, della salute, dal punto di vista “interiore”, un anno che ha dato inizio a qualcosa di molto importante e durante il quale ho affrontato esperienze bellissime e prove durissime.

Ho scelto di usare i social e il web, come questo blog per far conoscere le mie iniziative e il mio lavoro evitando al massimo notizie personali, sulla mia famiglia , e sulle mie idee perché non riesco ad adattarmi a questo frastuono, a questo “dalli all’untore”, se esprimi un pensiero in un modo o nell’altro sei accusato di qualcosa. Va bene così, continuo a stare nel mondo, sono informata ma preferisco non entrare nel calderone, probabilmente non  ne avrei l’energia giusta e sicuramente neanche la voglia per affrontarlo. Non è snobismo è proprio incapacità.

Sarà l’età, sarà che ho capito tante cose, sarà che ho scoperto che si può costruire qualcosa e andare incontro agli altri e dare una mano anche nel proprio piccolo universo, senza urlare e senza inveire.

Questo non è un articolo , questo è un atto dovuto di ringraziamento.

Sapete non so se posso definirmi ex timida o timida ancor oggi, so che non amo espormi, e che probabilmente sono anche troppo discreta in questo mondo di immagini e di rincorsa di like.

Questo non è un articolo dicevo è invece il mio modo di ringraziare chi acquista i libri che pubblica la mia casa editrice e chi segue il mio lavoro di volontariato e collaborazione con Milla Onlus, chi condivide quello che scrivo, le cose che organizzo, chi mi scrive via mail chiedendo riferimenti e consigli. Vi ringrazio perché date senso e significato al mio lavoro. Vi ringrazio perché non sono mai stata così creativa e entusiasta e al contempo non ho mai vissuto esperienze personali così spaventose come quest’anno.

Ci sono stati momenti in cui ho pensato di mollare tutto, i libri, la casa editrice, le formazioni, tutto.

Poi c’è stata una specie di rinascita, la casa editrice dopo prove ed ERRORI, ricomincia non da tre ma da quest’anno. Come se fosse nata nel 2017. Ciao A.G.Editions è nata, fiocco VERDE perché è un bel colore di speranza, che continui a crescere dipende da voi, da me, da chi scrive. Comunque GRAZIE , GRAZIE per la vostra gentilezza, per quelle righe che mi riempiono di gioia e di orgoglio: “ciao Adriana ti seguiamo da tempo… si vede che ci metti il cuore in quello che fai.”

Malgrado la mia discrezione avete compreso e allora questa è la strada giusta, e come dice il Maestrone Guccini

Ho ancora la forza che serve a camminare

Picchiare ancora contro e non lasciarmi stare

Ho ancora quella forza che ti serve

Quando dici: “sì, comincia!”

 

 

Adriana

Mare, dieta … La provola in costume

La provola in costume

Quando ero adolescente e pensavo all’anno 2000 mi vedevo non proprio vecchiarella, ma insomma donna matura in un ‘epoca sicuramente fantastica.

Chissà a che livello di tecnologia, civiltà, emancipazione saremo arrivati nel 2000, pensavo

Poi ho superato i 30 e ho cominciato a fare tutto in ritardo… in ritardo rispetto ai miei coetanei.

Alla soglia dei 40 ormai l’età aveva poca importanza, sono andata in campeggio (in tenda sì!) con un’amica nel Cilento, qualche anno dopo la mia vita ha avuto il suo primo vero cambiamento.

Altro che vecchiarella!

Ho lasciato il mio paese e ho seguito l’Amore.

Poco dopo, il figlio.

È passato un bel po’ di tempo. Non ho mai avuto problemi con il mio corpo. Da secca sono passata a magra, poi slanciata. E i chili presi in gravidanza sono riuscita a perderli in 2-3 anni. Ma altre cose sono accadute ne frattempo, altre prove , difficili, dolorose ma che non mi hanno piegata.

Ora la “prova costume” sta per arrivare , che poi prova non è perché i costumi acquistati l’anno scorso spero mi vadano ancora. Non è il costume il problema.

Il problema sono io e lo specchio, io e io, e io e la gente.

Una mia cara amica mi ha proposto una dieta che le ha dato il nutrizionista, dice dai facciamola insieme io ti dico cosa mangiare (anzi NON). Non ce la faccio in questo momento a mortificare il mio spirito e il mio corpo con sacrifici immani, con rinunce no, ora no.

In televisione ho sentito una donna rispondere alla domanda “ma tu ti metti ancora il bikini” , sì finché posso , poi quando sarò inguardabile non andrò più al mare.

E quindi c’è un limite al piacere di prendere il sole, di godere dei vantaggi del corpo liberato dai pesi invernali.

Se siamo belli, giovani e sodi ok. Altrimenti tutte nascoste.

Non credo che seguirò questa pratica e spero non lo faccia nessuno. Se sono o diventerò inguardabile (ma per chi, per quali canoni, ma perché devono guardare me?) , questi ipotetici censori dell’estetica allargheranno l’orizzonte dove troveranno centinaia di donne con il peso e i numeri giusti. Voglio avere il diritto di andare al mare (senza palandrana) finché campo, voglio avere il diritto di esporre il mio corpo sacrificato dopo mesi di freddi nordici , al calore e ai benefici del sole. Devo fare già i conti con me stessa e con lo specchio, devo già accettare questo corpo nuovo e amarlo e ringraziarlo per quello che mi ha dato, per la capacità di ripresa anche dopo terapie pesanti. Mi piacerebbe tanto perdere un bel po’ di chili ma se in questo momento non è possibile, che vada a quel paese la prova costume.

O come ha detto ieri mio figlio la “provola in costume”, affumicata magari.

 

Adriana Cigni

 

Maestra quando tremi…metti la giacca, non fa niente se tutti gli altri hanno caldo .

LORENA VERUCCHI

Storie di vita: convivere con il Parkinson
Dedicato a chi mi vuol bene… e anche a chi non me ne vuole…
A chi ha mille certezze …. e anche a chi ha mille dubbi…
A chi ha tutte le verità in tasca… e anche a chi ha le tasche rammendate…
A chi giudica senza appello… e a chi concede attenuanti…
Ma soprattutto a mio figlio e a mio marito, che non hanno certezze, non hanno verità in tasca, ma che si arrabbiano con me, piangono con me, ridono con me e sono davvero il più grosso regalo che la vita mi ha fatto.
Vi voglio raccontare la storia di una donna affetta dal morbo di Parkinson, malattia che colpisce anche in giovane età, e ve la voglio raccontare come un romanzo, un racconto di fasi di vita in cui questa donna si propone come persona comune, normale diremmo, che un bel giorno si ritrova diversa da come è sempre stata.
Notate che ho scritto un “bel giorno” e non un brutto giorno, volutamente. Infatti, raccontando la storia di una donna vivace e intraprendente, non posso che ritrovare me, noi, ciascuno di noi, tutti… quei tutti che componiamo la varia umanità.
Quella di cui parlo non è una donna prodigio, ma una brava studentessa, capace di superare gli esami per i concorsi e di diventare insegnante.
E’ evidente ciò che le accadrà: non si fermava mai, non era capace di restare in se stessa se non le poche ore passate a letto, quello sul quale si buttava esausta.. lei, brillante, che non aveva bisogno di niente e di nessuno..
Poi, un giorno qualunque, un braccio che non controlla più… tutto stava dicendo a quella donna “Fermati!”. Ma, non fraintendete: non “Fermati del tutto, a lavorare a maglia (con tutto il rispetto), vivendo con gli orari da casa di riposo”.. no, affatto, fermati con te stessa, ascoltati, guardati, non importa se poi lavori ventitre ore al giorno… basta che sia la tua vita e non la corsa affannata a nasconderti ciò che di più prezioso hai: te stessa, le tue emozioni imbavagliate e nascoste in fondo a te.
Abbiamo l’abitudine di affermare: “Dobbiamo lottare contro la malattia”, “Dobbiamo debellare la malattia”, “Sono stato colpito da..”, ma, in realtà, la malattia, il dolore, siamo noi, sono una parte di noi talmente inascoltata che, ad un certo punto, deve necessariamente mettersi ad urlare.. e se lo deve fare sferrando un calcio poderoso che mette k.o. tecnico, ben venga!
Solo che quella donna non ha capito. o ha preferito, in quel momento, non capire e non ha ascoltato ancora quel sé che, disperatamente, non voleva ascoltarsi. La necessità di fermarsi (per motivazioni psicologiche, per stanchezza fisica certa, eccetera) si è materializzata con blocchi muscolari nei momenti e noi luoghi più impensati.. fino a quando un neurologo ha diagnosticato il Parkinson.
Quella donna aveva bisogno di una diagnosi, aveva bisogno di combattere un morbo… ancora una volta non si stava ascoltando.
Poi, finalmente anche lei si fa la sua diagnosi, la diagnosi vera, quella che fa a se stessa…
Non si è ascoltata. Certo, le cure adoperate non risolvevano il problema, anzi ne creavano di ben peggiori, come fossero il placebo da dare alla paziente, qualcosa in cui credere, qualcosa che si pensava fosse risolutivo.
Eppure, l’unica risoluzione nessuno la trova. Non lei, perché è un cammino difficile da intraprendere; non i medici, perché non hanno alcun interesse a risolvere definitivamente i problemi delle persone, problemi che il più delle volte non colgono davvero e per i quali non hanno affatto soluzioni definitive; non altri, che sono spettatori e lettori di una vita narrata, certo, i famosi spettatori giudicanti, quelli con tutte le verità in tasca, pronti a catalogare tutti in ogni situazione.
Ed ecco che quella donna capisce: il segreto della vita è sapere quando si è al bivio, e la strada da seguire può essere l’una o l’altra, a seconda del coraggio, dell’umiltà, della preparazione.  bivio

A questo punto sono determinanti le persone amiche o i familiari, ed è determinante trovare l’aiuto giusto, risolutivo. prima di arrivare alla patologia, prima di doverci fermare definitivamente.

Non arrendersi è un pregio, certo, ma arrendersi, talvolta, lo è più grande. Arrendersi alla propria vulnerabilità, ai propri sogni, alle proprie aspirazioni. arrendersi al proprio fisico che, sottoposto ad ogni tipo di stress, vuole solo un po’ di quiete ed esprimersi finalmente come vuole, anche senza fare nulla, è spesso il più grande atto di coraggio che si possa dimostrare.

Ed è proprio lì che giace la risposta al “Perché io? Perché a me?”, 

perche-1e solo da lì si può trovare la strada per volersi bene a tal punto da non avere più bisogno di una malattia per avere un paravento alla vera ragione di vivere.

Io questa domanda me la sono fatta mille volte e, mille volte mi sono arrabbiata, ho pianto….

E POI SONO ENTRATA NELLA MIA CLASSE, TRA I MIEI BAMBINI.

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“E se fosse Amore?”

M’ama o non m’ama?margherite

Questo straziante dubbio, oggi come ieri, tormenta tantissime persone, molte delle quali si scoprono completamente cieche e vulnerabili nel dovervi cercar risposta. Alcune preferiscono non rispondere, altre addirittura negare, altre ancora delegare ogni responsabilità: meglio non saperne che doverci pensare seriamente… Sotto il cielo dell’amore, l’essere umano reagisce nei modi più stravaganti, cercando di conciliare ragione e sentimento. Possibile? Il paradosso è che, più ci sforziamo di entrare nelle logiche dell’amore, meno siamo in grado di capire cosa proviamo realmente o di rispondere al perché ci troviamo ancora in questa storia, o nell’altra, anziché fuggirla. Prigionieri delle nostre non-scelte, avanziamo singhiozzando, in cerca di risposte definitive. A volte, il dubbio su cosa proviamo non è insano di per sé, bensì conseguenza di ciò che ci aspettiamo dall’amore. Chiediamo all’amore di salvarci, di vendicarci, di scegliere al posto nostro, di darci stabilità e di non farci ripetere gli errori del passato. Deleghiamo al sentimento impossibile una pesante responsabilità, quasi a sperare fatalmente nel suo potere. Se nella fase dell’innamoramento vediamo nell’altro ciò che noi stessi vogliamo vedere, molti si ritrovano successivamente a fare i conti con il proprio disincanto, la delusione, il distacco o addirittura il rifiuto.

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Cosa spinge una persona a perseverare in un rapporto di sofferenza? Cosa porta un membro della coppia ad insistere in uno schema che ormai non funziona più? Cosa si cela dietro questa sorta di “masochismo”? Ormai gran parte delle coppie non sta insieme per amore, ma per paura. L’opposto dell’amore, quindi, non è più l’odio – come un tempo si pensava – ma la preoccupazione, il timore, l’angoscia del dover andare avanti a stento. Si ha paura di rimanere soli, di non trovare altre relazioni, di doversi rimettere in gioco. Si ha paura di invecchiare senza nessuno accanto, si ha paura di eventuali ritorsioni o di prendere una qualunque decisione, comprese quelle giuste. Vittime delle nostre stesse trame, viviamo la maggior parte delle relazioni con la paura, quasi fosse una variabile in grado di unire più dell’amore. In realtà, ogni legame basato sulla paura si rivela facilmente disfunzionale. Laddove il timore di perdersi è più forte del piacere di viversi i partner si sentono come condizionati ed il legame si struttura come una specie di dipendenza.

Eccoci dunque al nocciolo della questione: per poter affrontare al meglio questo tema occorre fare un passo indietro, partire dalla nostra persona, dal nostro copione relazionale.0001 In che modo stiamo amando? In che maniera riusciamo (o non riusciamo) a dimostrarlo? Senza sapere dove siamo è spesso difficile capire dove vogliamo andare e dove è necessario lavorare per migliorarci. “E se fosse amore?” ci aiuta a districarci nei nostri labirinti sentimentali e pseudo-sentimentali, a fare i conti con il nostro modo di amare ed essere amati, con ciò che tendiamo a negare o giustificare, a divenire consapevoli del nostro stare insieme e – soprattutto – a saper cambiare quegli atteggiamenti e quei comportamenti che si ripercuotono inevitabilmente sulla nostra vita affettiva. E se un domani, dunque, nel bel mezzo di un sentimento forte, la mia mente ballerina dovesse tornare a chiedermi: “E se fosse amore?”. Ecco, che questo libro possa indicarmi la strada da percorrere. Buon cammino.

 

 

 

Riferimenti

Il Dott. Claudio Cecchi è Psicologo e Psicoterapeuta, specialista in Terapia Breve e Formazione. Da anni si occupa delle principali problematiche cliniche e relazionali del singolo, della coppia e della famiglia. Svolge attività di formazione per contesti educativi, aziendali e sportivi, nonché coaching per atleti e artisti. Collaborano con lui Esperti in Alimentazione, Logopedisti, Mediatori e Specialisti in Psicologia Giuridica. E’ coautore del libro “Parla con me”, testo sulla comunicazione genitori-figli, pubblicato da A.G.Editions nel Febbraio 2016.

Il libro lo potete ordinare in libreria

acquistare direttamente dalla casa editrice

scrivendo a [email protected]

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Oppure su amazon seguendo questo link

Come un corridore

Sono genitore di una bambina dell’età di 6 anni che soffre di Mutismo Selettivo.

All’inizio non sapevo cosa fosse questo disturbo e quando ho iniziato a documentarmi  il primo pensiero è stato: non è possibile sarà un altro problema, mia figlia non può soffrire di questo disturbo.

In realtà, molte cose coincidevano, molti comportamenti della mia bambina corrispondevano alla sintomatologia tipica del disturbo, non restava quindi che chiedere il parere e la conferma da un’esperta, mi sono rivolto ad  una Neuropsichiatra che ha confermato i miei dubbi.

Non mi sono scoraggiato, a differenza di mia moglie che si sentiva demoralizzata perché cercava  di trovare le risposte o le cause che avessero determinare tutto questo, come accade spesso quando un figlio vive una difficoltà, si cerca le responsabilità nell’uno o nell’altro di noi genitori.

Non potevo stare fermo, ho  cercato su Internet i migliori specialisti, ho letto libri sull’argomento.

Una grande forza mi spingeva a dire a me stesso: non arrenderti, ci riuscirai.

Ho incoraggiato mia moglie, le ho detto restiamo uniti e fiduciosi, prima o poi nostra figlia uscirà dal suo silenzio, ho cercato a modo mio di applicare piccole tecniche riportate sul libro della Dottoressa Shipon- Blum,   per esempio al risveglio per mitigare l’ansia prima di andare a scuola,  quando non aveba molta voglia di andare,  facevamo una gara scherzosa in bagno per  chi riusciva a vestirsi per primo.

È ormai un anno che la mia bambina è seguita da una Dottoressa e i progressi si vedono, inutile negarlo è un percorso faticoso per noi e per lei, che spesso si sente demotivata ci sono dei momenti in cui vorremmo mandare  tutto in aria, perdiamo la speranza. Ma sono momenti, poi passano.

Continuo a credere che tutto si risolverà a volte mi viene in mente la corsa di un corridore bendato che non si rende conto del tempo e della distanza che deve ancora percorrere per raggiungere il traguardo, ma corre perché ha fiducia e sa che ci arriverà. Ecco io mi sento un po’ così senza misurare il tempo o le difficoltà che trovo sul percorso so che  la mia bambina parlerà .camminata

E trasmetto questa certezza anche a lei. Almeno ci provo.

Da qualche tempo qualcosa è cambiato, l’incontro con l’associazione Milla ONLUS e il Mutismo Selettivo In-Formazione TOUR mi  ha fatto capire che non siamo soli,   da questo incontro per ora virtuale  è nato  un meraviglioso progetto che vede realizzarsi per la prima volta in Sicilia a Palermo una giornata di formazione, sembrava quasi impossibile da realizzarsi e invece a due mesi dall’evento abbiamo avuto un’adesione straordinaria.

Questa è la mia esperienza, spero che possa risultare utile anche ad altri genitori.

Vincenzo Petitto

 

Immagine presa dal web

 

Children with selective mutism : mistakes and behaviours to avoid in classroom.

Children with selective mutism : mistakes and behaviours to avoid in classroom.

The selective mutism is a rare disorder, which usually starts in pre-school: the main and only characteristic is given by the child silence in given social situations. 

Let’s imagine a classroom. A classroom at kindergarden or primary school, but also a classroom in a secondary school.

There is a student, there at the back, she has a stiff posture, a different gaze compared to the others, sometimes she looks like a lost puppy, sometimes her eyes stare at the void, other times she is really attentive and is a good listener. She does not participate, neither raise her hand, nor even laugh.

It seems that opening her mouth to make any sound, even a laughter, requires an effort.

She does not speak neither with the teacher, nor with her schoolmates. She does not like sport or competition. It looks as if her unique goal is to be invisible. She is not autistic, nor has any physiological/functional problem which prevents her from speaking.

She observes  a lot, is clever, alert and sensitive.

The teacher speaks with the parents.

The parents describe another girl, but it’s always her, a talkative girl, an endless machine. They say that she reads well, that she is curious, cheerful and full of joy.

The symptom, the silence is called selective mutism.

Doctor Claudia Gorla, a psychotherapist with more than 100 cases solved explains : “the selective mutism is an anxiety disorder which affects children already during early childhood, generally when they attend the day care or the kindergarden, practically during their debut in society. The child leaves the family background and is in touch, for most of his day, with strangers which could threaten him. The reaction is the impossibility to speak, but not only, there is also a stiffness, a physical freezing”.

WHAT TO DO AND NOT TO DO WHEN YOU HAVE A CHILD WITH SELECTIVE MUTISM IN YOUR CLASSROOM

First of all it is important to know that the selective mutism is an SEN diagnosis.

It is necessary to collaborate completely with his family and the psychotherapist who follows the child. Without this co-operation it is difficult to create, around the child, a peaceful environment which can help him to feel at ease, because the main goal is not make the child TALK but to lower the anxiety.

“The problem is not the talking, it is the anxiety”. This is written on one of the slides which Doctors Ius and Gorla show during the IN FORMATION about selective mutism, workshops organized all over Italy. They ask the parents and teachers to forget the silence of the child.  A hard task, but necessary. They say that you have to concentrate on the abilities and put the deficiencies aside.

Silence is a symptom. It is a symptom of the  disorder which is different for every child, since every child has its own story, silence is unique and cannot be repeated.  I know it is difficult for a parent and for a teacher to forget “the silence”, one feels lost, powerless, failure is experienced too. We are not used to face silence. We want to defy, to try, just as if having the child talk could be a victory for us and not a relief for him.

Time and patience are needed.

It takes time for the child to decrease their anxiety. Once anxiety is reduced, the symptom slowly disappears too.

Have the patience to respect this lapse of time. Anxiety is a natural defense to face danger, when the threshold at which it is released is normal. “children with selective mutism are like these animals who pretend to be dead to avoid being captured by predators”, explains Dr Gorla.

When the level is low, it also begins in common situations like at school, or in presence of strangers or in new places and environments, and it difficult to control it.

Word gets blocked, it is “stuck” in the throat and it becomes impossible to speak. One strongly wants it but nothing can be done, it does not come out. There is no will in the child’s silence, it is not an oppositional behaviour, neither a tantrum, nor a prank towards the teacher or their classmates.

How can you think that a child could choose not to say “I must go to the toilet”, not to shout to his fidgety classmate “stop elbowing me», not to express his happiness, his joy for a good grade, his fondness with words.   Just try to imagine how strong the block is that it hinders the expression of his emotions.  The silence is the tip of the iceberg, the symptom, beneath everything is to be overcome, to be sorted out.

Don’t : don’t pressure speech. Don’t ask them to answer. Do not have them sit next to a smart one so as to help. Do not force him to speak. The child with a selective mutism does not have any delay in learning, they are a child like all the other. Do not make an oral exam. Replace the oral test by a written one.  Questions, doubts ? Can they at least read ? Ask the parents and then check by yourself : pronounce the word written in the book or the sentence and ask him to indicate it to you.

Organize small groups in which he can work peacefully. In case of circle time, try to find alternative systems to words, ask him to tell orally, for those who want it or in writing, or with a design.

There is also a series of tricks which can be achieved at school (go into first or after the lessons in the classrooms, one adult only with the child to bring the “word” to school, introduce a classmate, then two, and finally the teacher, etc.). They have to be agreed with the psychotherapist, with the teacher and with the child himself.  Please bear in mind that often the teachers are limited because of denied authorisations, lack of structures (care pathways) and low availability.

One piece of advice which is almost a prayer : never record the child’s voice without his permission, they would discover it sooner or later and you would lose their trust.

You can overcome selective mutism : this is good news. If diagnosis occurs early, so can the resolution. Otherwise you have to wait the necessary time needed by the child.

For children below 6, in Italy usually the psychotherapists work together with the teachers and the parents, without even seeing the kids. For children above that age, there could be a direct meeting with the psychotherapist.

Sometimes selective mutism goes on until adolescence and sometimes into adulthood. In this case everything changes, the same techniques used for young children cannot be applied at school or at home. The typical problems of this age are added to the one due to mutism.

But are time and patience also necessary in this case ? Sure, even more, because you can overcome selective  mutism sooner or later.

Adriana Cigni

translation of the article http://http://www.youreduaction.it/bambini-con-mutismo-selettivo-errori-e-comportamenti-da-evitare-in-classe/mutismo-selettivo/

translated by Françoise Vander Putten

 Phil Thomason

Parla con me

Il momento è arrivato.

Una nuova Collana  “Orizzonti psicologici” per aprire nuove strade, nuovi percorsi, libri da leggere ma anche sui quali riflettere, libri con cui confrontarsi.

Il primo libro della nuova Collana  è

 “Parla con me”  

Comunicare con i vostri figli è difficile?

Consigli, situazioni e soluzioni per un dialogo sereno

 

autori Claudio Cecchi (psicologo e psicoterapeuta a orientamento strategico breve.) e Chiara Mercurio (Psicologa e psicoterapeuta ad indirizzo cognitivo comportamentale).

Di cosa parla questo libro:

“All’interno della relazione con i propri figli troviamo genitori che vorrebbero avere con loro maggior dialogo, altri che lo hanno già ma desidererebbero fosse più funzionale, altri ancora che lamentano la necessità di imparare a gestire alcuni momenti di criticità familiare o genitoriale e altri che invece hanno rinunciato e si stanno limitando a non peggiorare le cose. In altre parole, ad ognuno di noi sarà certamente capitato di vivere un momento di difficoltà con i propri figli o con i propri genitori e di poter dire fra sé “dove sbaglio?” o “possibile che non capisca?”.”

Come dico spesso i libri certamente non possono guarire o risolvere tutti i nostri problemi o le nostre difficoltà, possono aiutarci a capire, questo sì possono farlo.

Possono farci uscire dal nostro isolamento, dal senso di unicità che spesso ci fa dire “capita solo a me, mio figlio/a si comporta così a causa mia..” . Non esistono formule magiche, noi genitori (lo sono anch’io!) e i nostri figli siamo e sono individui unici, ma a volte le situazioni si assomigliano, spesso le fasi cruciali della nostra vita come l’adolescenza rendono simili e condivisibili alcune problematiche. Questo libro ci permette di affrontare i nodi del rapporto genitori – figli con un pizzico di consapevolezza in più.

Non è un manuale come dicono gli autori stessi, ma è un buon supporto per aiutarci a vedere più chiaro in noi stessi. Come possiamo instaurare un dialogo sereno e armonioso  se ci sentiamo perduti e soli e incapaci, o se al contrario siamo convinti di essere perfetti e non “riconosciamo” in questo alieno che ci si oppone , NOSTRO figlio?

“Alcuni genitori possono vivere il problema o la difficoltà del proprio figlio come una colpa, come il risultato della propria incapacità o inadeguatezza a svolgere il proprio ruolo genitoriale; inoltre questo giudizio auto-diretto può espandersi anche alla valutazione di se stesso come essere umano: “Non sono una brava persona”, “Ho fallito nel raggiungimento del mio obiettivo di avere una famiglia serena e senza troppi problemi”, “Non sono capace di trasmettere disciplina”, “Se mio figlio ha un problema significa che non so proteggere la mia famiglia”, ecc.

copertina finale 2 - Copie

 

capitolo

“Quando insegnanti o genitori costruiscono aspettative negative sul bambino, prende forma in essi una sorta di “credenza patogena”, secondo la quale è lecito aspettarsi dal figlio o dall’alunno dei comportamenti sempre più problematici.

Il cosiddetto “etichettamento patologico” favorisce il fatto che l’intero sistema familiare e scolastico si relazioni con il bambino in virtù di tale etichetta. In sintesi, quando ad un bambino vengono attribuite soventemente caratteristiche negative, tutti intorno a lui cominciano a modificare il proprio comportamento nei suoi confronti, in linea con l’aspettativa definita dall’etichetta.”

Il bambino da proteggere

Tra le varie forme di preoccupazione patologica dell’adulto, un posto di rilievo clinico e statistico è sicuramente occupato dalla paura che si verifichino disgrazie o eventi catastrofici, soprattutto alle persone più care. Questo fenomeno è solito provocare notevole disagio e sofferenza, impedendo alle persone di rilassarsi, fino al punto di dover costantemente restare attenti e in allarme, pronti a prevenire o neutralizzare ogni possibile minaccia.

Questi sono alcuni stralci del libro.

Spero di avervi incuriosito e interessato.

Il libro  si può ordinare in tutte le librerie.

Si può acquistare scrivendo a me [email protected]

12.50€

oppure seguendo il link lo trovate anche su amazon.it ovviamente

 

ora anche in formato eBook

Adriana Cigni

editrice A.G.Editions

[email protected]

www.ageditions.altervista.org

Abbiamo la grande opportunità di trasformare il nostro dolore in speranza e soprattutto in risultati concreti.

“Si stanno avvicinando le nuove tappe del tour informativo. Vorrei fare una riflessione: con gli strumenti che abbiamo oggi grazie al lavoro dello Studio S.m.a.i.l. in collaborazione con Milla Onlus finalmente possiamo ottenere grossi risultati modificando in positivo comportamenti e situazioni che inducono il bimbo a parlare liberamente. Premesso che noi genitori dobbiamo avere la volonta’ di “fare i compiti a casa” con l’ aiuto delle psicologhe per raggiungere i traguardi, oggi anziché chiederci se mai i nostri figli parleranno , possiamo iniziare a chiederci quando parleranno , che è una cosa molto diversa, perchè il ms è curabile. l fatto che cerchiamo di coinvolgere soprattutto le insegnanti negli incontri ha un significato preciso  esse rappresentano il lato mancante di quel triangolo (costituito da psicologo, genitori ed insegnanti appunto ) dentro cui il bambino puo’ sentirsi al sicuro ed essere stimolato positivamente. Lavorando correttamente all’ interno di questo triangolo andiamo a creare il terreno , le condizioni per cui il bimbo puo’ permettersi di abbassare l’ ansia e iniziare ad esprimere il potenziale che si porta dentro . Queste tre figure devono continuare a scambiare in modo reciproco informazioni, il tutto coordinato dall psicologo che ha un ruolo di guida . I docenti collaborativi e opportunamente formati hanno un ruolo fondamentale per arrivare ai risultati oltre ad avere il compito di segnalare per primi eventuali casi di ms . Da qui nasce il nostro caloroso invito a partecipare . Grazie.

MARIO BOCCHIO

 

 

 

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Un giorno ti giri e….

Passeggiavamo tutti e tre sotto un cielo azzurro e un sole splendente.

A sinistra un bosco, a destra la Moselle.

Sembrava proprio un giorno d’estate. Raro da queste parti.

 

 

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E capita così all’improvviso che ti giri per dire qualcosa al tuo “bambino” e… ti accorgi che non hai più bisogno di abbassare lo sguardo per parlargli. Lui è là, quasi alla tua altezza.

Quando  e come è successo?

Sta crescendo. Mi commuovo.

Ho gli occhiali da sole, nessuno si accorge.

E lo guardo con altri occhi, ancora saltettante come un bimbo felice ma è un ragazzino ormai con tante passioni, tanti interessi che non sono i miei, che non ha preso da me o da suo padre. Le ali cominciano a spiegarsi, ad aprirsi, ci vorrà ancora tempo prima che voli completamente da solo, ma le prove comincia a farle.
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La prova costume

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Ogni anno qualche giorno prima di partire mi prende un nervosismo incredibile.

So cos’è. La prova costume e non solo.

La prova di quei vestiti che qui dove vivo io non metto mai, prendisole, top, e via dicendo.

La prova costume è forse una prova con me stessa? Un confronto tra l’immagine che è tatuata ancora nella mente e quella reale che è completamente diversa. E soprattutto non accettata, da me.

Sto attenta all’alimentazione, l’unico cosa che non mi sono mai fatta mancare è la cioccolata fondente. Non importa, nessuno me la toglierà.

Faccio una vita sedentaria in un luogo dal clima inclemente, odio le palestre e posso contare solo su camminate che faccio raramente, quindi… è un mea culpa continuo.

Ma inutile girarci intorno, il primo giorno di mare è un trauma, bianchiccia con quei chili troppo che non riesci a eliminare, arrabbiata col mondo e con la magra che eri.

Mi tolgo il vestitino (Giuseppe mi dice: ma non ti metti il copricostume ? Vai al mare vestita “normale”?). Devo abituarmi, al sole, all’aria, a mostrare la ciccia, la pancia, le imperfezioni ma veramente sono tutti lì ad aspettare me, per valutarmi?

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Trattasi di super-ego o insicurezza insana?

E mi seggo per mimetizzarmi.

Ma quanto dura? Pochi minuti!

Alla fine prevale la sensazione di benessere. Percepisco il sollievo della pelle che mi dice “grazie”

Tutto il mio essere che reagisce alla luminosità, al cielo azzurro, ai colori. Al calore che mi manca tanto durante l’anno.

Un grazie che nasce dal profondo.

Mi guardo intorno e mi rendo conto che il peggior giudice sono io, il mondo se ne infischia della mia cellulite, anzi se ne infischia della mia totalità. Ah se mi assolvessi, se facessi pace col mio corpo e l’accettassi per quello che è: imperfetto ma unico.

Per fortuna dura l’incertezza dura poco poi è una storia d’amore tra me il sole, il cielo e il mare.

Vogliamoci bene, tanto.

Adriana

Signori e signore… un libro per l’estate. Le nostre offerte

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Un libro per l’estate…

offerta solidale

1 LIBRO (QUALSIASI LIBRO A VOSTRA SCELTA ) DEL NOSTRO CATALOGO

+ 5 € DI SPESE DI SPEDIZIONE (Anziché le solite 1.50€ ) = 5 copie dell’albo illustrato “Le parole interrotte”

di Patrizia Rinaldi e Bruna Troise in regalo.
In pratica solo 3.50€ di spese di spedizione.
Se siete insegnanti potete regalarli alla vostra classe l’anno prossimo, o alla scuola, oppure qualsiasi lavoro facciate, che abbiate o meno figli potete regalarli ad un OSPEDALE PEDIATRICO, ad un’associazione che si occupa di bambini, anche bambini stranieri madrelingua francesi. Insomma secondo me è una occasione per regalare uno stupendo albo d’autore e leggere un buon libro.

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Offerta un libro per l’estate

PRMO4

Un bambino come tutti gli altri

Questo non è un « progetto », non c’è uno scopo preciso, non c’è alcuna azione commerciale, c’è solo un’idea : mostrare che il bambino che soffre di #MUTISMO SELETTIVO non è il suo Mutismo è anche altro. È un bambino che sogna di diventare un supereroe, che gioca a calcio, che si tuffa in piscina.

Insomma un bambino che ha tutto un mondo dentro che prima o poi uscirà.

Ho chiesto agli artisti  che conosco e anche a quelli che non conosco di regalarmi un disegno che esprimesse tutto questo e stanno rispondendo. Ma volevo un disegno che uscisse dai soliti cliché del bambino triste, della bambina con la mano sulla bocca. Un disegno in cui si possa riconoscere, anche sorridendo, chi vive questo disturbo.

Per ogni disegno invento una didascalia che traduco in varie lingue grazie all’aiuto di amici in varie parti del mondo. Tutto gratuitamente solo per diffondere un messaggio, per far conoscere questo disturbo, per uscire dall’invisibilità silenziosa questi bambini, ragazzi, giovani e adulti.

Se non ci aiuta l’arte… chi mai?

Per ora… ma sono solo i primi in ordine cronologico

ATTENDO TANTE ALTRE ILLUSTRAZIONI!

MIRCO MASELLI

SILVIO MACCARRONE

TIZIANA RINALDI

SANDRA DEMA

 

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mirco inglese

 

 

 

 

 

 

 

mirco spagnolo

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                      SILVIO MACCARRONE

 

maccarrone francese ingles silvio spagnolo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sarò Bre’ in poche parole

A.G.Editions annuncia  la nascita di una nuova Collana Sarò Bre’ (mi raccomando con l’apostrofo e non con l’accento!)

cicogna

 

 

 

 

 

Il primo libro, spero di una lunga serie , è “Vivo a frasi alterne” a cura di Pietro Gorini. 

Lascio al curatore di questa raccolta il compito di spiegarci di cosa si tratta.

Pietro GORINI

“Scrivere Breve Pensare Lungo” questo è il motto di Sarò Bre’, il gruppo nato su Facebook nell’estate 2015.

Sarò Bre’ è un gioco, un gioco letterario, con una sola regola:

scrivere frasi originali lunghe al massimo 10 parole.

Per le parole in più, forbici! (simbolo di Sarò Bre’).

 Viviamo nel tempo della brevità, 160 caratteri per gli sms, addirittura 140 per un tweet. Ma non sempre brevità significa anche intelligenza, densità di pensiero. Questa è la sfida di Sarò Bre’.

 Immagine1 - Copie (3)

Aforismi, battute, giochi di parole, poesie, in un anno di vita gli autori di Sarò Bre’ hanno sfornato migliaia di frasi. Le più belle sono state raccolte in due antologie “Ah! Ah! Ah! Cercasi amore vivo o morto”, e il nuovo “Vivo a frasi alterne”, che comprende le 660 frasi finaliste del 1º Premio Sarò Bre’ -Velletri Ridens.

In un anno di attività il Gruppo Sarò Bre’ ha prodotto, oltre che migliaia di frasi:

 

  • 2 libri
  • 4 show, di cui uno di beneficenza, con la partecipazione di decine di autori.
  • un laboratorio sulla scrittura breve al femminile presso l’Università Federico II di Napoli
  • il 1º Premio Sarò Bre’ – Velletri Ridens, che si concluderà il 25 giugno xon la, premiazione delle migliori frasi nelle Categorie Aforismi-Battute-Giochi di Parole – Poesie – Premio del Pubblico.

 I fondatori di Sarò Bre’ : Pietro Gorini, autore, Roberto Dal Prà, sceneggiatore, Tommaso Gorini, libraio, Silvana Maja, regista, Igor Patruno, scrittore, Gianfranco Tartaglia, disegnatore.

 Iscriviti su fb a Sarò Bre’ gruppo aperto, e posta le tue frasi originali lunghe al massimo 10 parole.

 Ecco due frasi che esprimono bene lo spirito di Sarò Bre’

 “Sarò Bre’. La tesi è la sintesi” (Vincenzo Nizza)

“Sarò Bre’ è un’arma di distruzione di massime”. (Luigi Marchegiani)

https://www.facebook.com/groups/849553068463681/?fref=ts

 

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Diario di bordo. Breve bilancio

Diario di bordo

 

In questi giorni del tour ho usato poco il pc, dopo tanto lavoro per preparare gli eventi avevo bisogno di immergermi nella realtà.

Incontrare le persone, sentirle per telefono, gettare le basi per nuovi incontri e perché no? Nuove iniziative, nuovi progetti!

Il progetto Mutismo Selettivo in-formazione Tour ha preso forma, si è concretizzato.

L’impatto è stato bellissimo, tutto è andato bene, sono soddisfatta, per me è stata un grande prova.

 Un consiglio per tutti: non si finisce mai d’imparare. La curiosità e la voglia di fare nuove esperienze fanno bene alla mente e al corpo.

Mettetevi in gioco.

Non c’è un limite di età, anzi il cervello più lavora, più elabora e più e vi stupisce.

A me è successo. 

Certo sono stata fortunata, supportata e sostenuta in questo progetto, ma le 4 formazioni sono anche il frutto di un intenso lavoro di tutto il mese di gennaio.

Umanamente il bilancio è positivissimo, professionalmente ho acquisito esperienza e ho allargato il pubblico di lettori.

Perché accanto all’impegno per l’Associazione resta prioritario il mio lavoro di editrice.

Ci si potrebbe domandare:

qual è stato e qual è lo scopo di questo progetto?

Diffondere informazioni sul Mutismo selettivo.

Gli incontri erano aperti a tutti ovviamente, ma abbiamo lavorato tantissimo per diffondere la notizia tra gli insegnanti.  E ci siamo riusciti.

Il 95 % dei partecipanti alla IN-FORMAZIONE  in tutte e 4 le città erano insegnanti.

Questo è un dato importante, un successo per tutti.

 Per tutti in assoluto.

Per i genitori, per chi vive il disturbo, per gli psicoterapeuti e per gli insegnanti stessi che hanno acquisito uno strumento in più, un’informazione in più  che potrebbe facilitare il loro lavoro.

Non ho contato realmente le persone, in ogni città ci sono stati degli assenti e delle persone che hanno partecipato senza iscrizione, iscritti erano circa 200.

Senza peccare in eccesso o in difetto posso dire che abbiamo raggiunto circa 170 persone.  Ma non stiamo partecipando ad una gara, le formazioni sono gratuite, gli attestati anche, i numeri non servono a “vantarsi”, servono  solo a valutare l’utilità di questi incontri, il fatto che ci sia una larga adesione, che io riceva “inviti” a organizzarne in tante città è un segnale importante, una risposta precisa alla domanda “vale la pena di andare avanti in questo progetto itinerante?”. Sì.

Un bilancio?

Sono molto contenta, ho imparato molte cose, ho accumulato esperienza, ho fatto qualche errore, qualche piccola defaillance ma credo che tutto sia andato bene.

Ma l’importante è che le informazioni delle relatrici siano passate al pubblico presente, io ho solo creato l’evento ma la formazione l’hanno curata loro e solo loro

Per quanto mi riguarda ora mi rimetto al lavoro, ci sono nuove tappe, nuovi incontri da preparare, tante persone da registrare .

Se qualcuno aveva dei dubbi su un’eventuale incompatibilità tra il mio lavoro di editrice e il mio ruolo di organizzatrice credo che tutto ormai sia chiaro e trasparente, i libri A.G.Editions sul mutismo selettivo sono disponibili alla fine di ogni incontro per chi vuole acquistarli, semplicemente. Liberamente.

Mi dispiace non aver potuto dedicare più tempo e ascolto alle mamme che ormai sono diventate  mie amiche, e a tutte le persone che mi hanno contattata via mail e mi hanno conosciuta in occasione d egli incontri. Avete ormai tutti i riferimenti per trovare me le Dottoresse e l’Associazione Milla Onlus.

Ringrazio la Dottoressa Gorla e la Dottoressa Ius per la totale fiducia che hanno riposto nelle mie capacità di organizzatrice di eventi. Credo di essere stata molto fortunata, tutte le sedi d’incontri sono state scelte o tramite segnalazioni di amici o

da me via internet. Ho trovato gentilezza e disponibilità ovunque e anche sale adattissime agli eventi. Grazie.

Un grazie immenso a Milla Onlus che mi permette di dare concretezza a idee e progetti, senza il totale finanziamento dell’associazione non ci sarebbe  il progetto.

Al prossimo TOUR

Adriana

 

P.S. se volete che la Formazione si svolga nella vostra città scrivetemi, faremo il possibile per raggiungervi.

[email protected]

 https://www.facebook.com/Mutismo-Selettivo-In-Formazione-TOUR-1675342602747129/?ref=hl

 

 

 

 

CHE COS’È L’INTELLIGENZA EMOTIVA?

È un aspetto dell’intelligenza che riguarda la capacità di saper riconoscere e comprendere in modo adeguato le proprie e altrui emozioni. Il successo del concetto di “intelligenza emotiva” è da attribuire a Daniel Goleman, ricercatore americano e professore di psicologia all’Università di Harvard e autore di tanti testi fra cui “Emotional Intelligence.
Per molto tempo, a mio avviso, la dimensione emotiva delle persone è stata trascurata dalle scienze psicologiche, interessate e impegnate a studiare le variabili dell’apprendimento, la percezione o la motivazione. Con D. Goleman si gettano le basi di un’educazione emotiva volta a definire le componenti dell’intelligenza emotiva che, come lui stesso scrive, sono cinque:

◊ Consapevolezza di sé

◊ Dominio di sé

◊  Motivazione

◊ Empatia

◊ Abilità sociale

SI PUO’ PARLARE DI APPRENDIMENTO EMOTIVO?

Le competenze affettive, empatiche e di rispecchiamento reciproco oggi sono determinanti fin dalla più tenera età, per creare un clima di condivisione in classe e non solo. La sfera emotiva è un contenitore e attraverso l’empatia, ossia la capacità di immedesimazione, ci permette di mediare ogni connessione con la realtà esterna. Da qui la necessità di creare non solo un’educazione emotiva mirata, ma una vera e propria Didattica delle Emozioni. Nella costruzione di un percorso di apprendimento il fattore emozionale va quindi considerato come una componente indispensabile all’apprendimento stesso e si può quindi affermare che senza emozione non ci sia apprendimento.

PROGETTARE IN CLASSE UN PERCORSO DI SVILUPPO DELL’INTELLIGENZA EMOTIVA.
Impariamo ad essere Adulti Emotivi
Qui voglio esporre le linee guida per iniziare un percorso operativo di classe, di solito a scuola il tempo a disposizione non è sufficiente a causa delle scadenze, resta poco tempo da dedicare ai bambini senza calendarizzazione e programmazione. Ma siamo sicuri che sia davvero così difficile trovare uno “spazio affettivo” e completamente dedicato a loro?

margherita Se durante la lezione un bambino/bambina manifesta un’emozione negativa o di insofferenza, prendiamo ciò non come un fattore di disturbo alla lezione ma come un occasione di intimità;

margheritaSe un bambino manifesta l’emozione della rabbia, cerchiamo di non essere impazienti, ma ascoltiamo i suoi tempi;
margheritaNon spiegamo ai bambini quel che dovrebbero provare, ma cerchiamo di utilizzare i momenti emozionali per ascoltarli, rassicurarli e contenerli;
margheritaTutto questo ci serve per aiutare i bambini a riconoscere le proprie emozioni, impareranno a fidarsi dei propri sentimenti e cresceranno con un’alta stima di sé e con una maggiore facilità di socializzazione;

Mi chiederete ma in pratica cosa posso fare in classe per avviare un percorso di Educazione emotiva?
Semplice, partiamo dall’appello che è un momento cruciale perché oltre ad essere una routine è il primo approccio con i bambini all’interno della classe, io ho strutturato L’Appello delle Emozioni così:

 

emoticons

 

Non un appello sterile fatto di presenze-assenze ma un appello emotivo, fatto di: “come stai oggi?”
Se oggi sono felice lancio lo smile giallo e lo condivido con un altro mio compagno/a che oggi si sente felice come me.
Un altro momento poco organizzato a scuola è l’intervallo. Ci dovrebbero essere momenti di gioco libero, per non appesantire ulteriormente i bambini, ma qualche volta è gradevole anche partecipare creando dei “giochi emotivi” semplici ma di grande risonanza.
Come ad esempio I colori delle Emozioni:

sagome-fiori-1Associare ad ogni colore un’emozione, e spiegare quando mi sento cosi e perché, potrebbe essere un momento di condivisione emotiva e di confronto importante, sia per percepire le proprie emozioni collocandoli visivamente, sia per avere una percezione quantitativa delle emozioni provate. Infine in ogni classe non dovrebbe mai mancare un Pannello Emotivo per imparare a conoscere e riconoscere le nostre emozioni, che come sfumature dipingono ogni giorno il nostro cuore di colori diversi.

 

smiles640-300x178Marta Tropeano
Dott.ssa in Scienze dell’Educazione e della Formazione
Laurea Specialistica Magistrale in Coordinatore e dirigente dei servizi socio-educativi e Scolastici e in progettazione dei servizi socio-educativi e formativi.
Corso di perfezionamento: Consulente di Orientamento scolastico, universitario e professionale.
Corso di formazione post-laurea: “La didattica delle emozioni”.
Mail [email protected] Cell. 3403849527

Le equazioni di secondo grado sono “fichissime” e la coda di una cometa è solo polvere stellare..

Cara Adriana,

Sono Erminia, mamma di una ragazza m.s.
Volevo sinceramente ringraziarti per tutto quello che fai per rendere sempre più noto al pubblico cosa è il mutismo selettivo e regalarti una storia.
La prima volta che ho incontrato il mutismo selettivo avevo circa 11 anni. Frequentavo la prima media e in classe c’era questa ragazza: Gloria, capelli castani, occhi marroni; per tutti e tre gli anni delle medie non le abbiamo mai sentito pronunciare una parola, mai un presente all’appello, non è mai venuta alle festicciole tra compagni né ha mai partecipato ad una gita. Una sola volta un insegnante (quello di arte) ha provato ad interrogarla, in cattedra… stava per svenire. Alla fine delle medie le è stato consigliato, dagli insegnanti, di non proseguire gli studi… Nessuno ha mai saputo dare un nome al suo problema, nessuno ha cercato di aiutarla. 
Il mutismo selettivo, in quegli anni era pressoché sconosciuto.
Dalla fine delle medie non ho più incontrato Gloria ma, a distanza di più di trenta anni l’ho rivista, in mia figlia Chiara. 
Infatti a mia figlia è stato diagnosticato il m.s. ma solo quando è arrivata alle superiori. Faccio il collegamento tra le due storie proprio per questo motivo: Gloria. non ha ricevuto aiuto perché nessuno sapeva cosa avesse e cosa si poteva fare, Chiara avrebbe potuto essere aiutata prima se ce ne fossimo accorti. 
Invece…per tutti era solo una bambina timida:
“Parla poco, parla piano ma crescendo cambierà, non c’è da preoccuparsi”
“è così brava, rispettosa delle regole, non parla sopra gli altri, aspetta il suo turno”
“è già molto matura per la sua età, io vorrei riuscire a tirarle fuori quella birbanteria tipica dei bambini di quest’età”, ecc., ecc. Ti potrei citare tante altre di queste frasi che mi dovevano suonare tutte come campanelli di allarme e invece…
 Invece a casa era un autentico terremoto…anche con i compagnetti che lei stessa invitava. 
Poi, con un bel 10 come voto di licenza media arriva al primo anno di liceo scientifico e qui prestissimo la scoperta di questo scomodo compagno.  La sua condizione di m.s. si era consolidata ed aggravata: da lieve (quindi sottovalutato, quindi trascurato, scambiato per semplice timidezza) è diventato grave. Chiara adesso parla solo con me e solo a casa; fuori casa può continuare a parlarmi ma sottovoce e se non si sente osservata. Ma anche con questi connotati di gravità nessuno ancora era in grado di dare il giusto nome a questo problema. Indovina un po’ il primo neuropsichiatra che l’ha visitata di cosa ha parlato: “Qualcosa di tipo autistico”. Il secondo di sindrome di asperger (che appartiene allo spettro autistico), il terzo di “altro disturbo psicotico dell’infanzia e dell’adolescenza”. Ti rendi conto??? Psicotica Chiara!!! Dissociata dalla realtà? non avevo mai sentito niente di più assurdo. 
Adriana, se la conoscessi! Io non conosco nessuno più concreta di lei e calata nella realtà delle cose. Figurati che da grande vuole fare la scienziata.
Materie preferite matematica, fisica e scienze; se la pentola sul fuoco bolle lei non pensa “finalmente si mangia” ma mi si avvicina e mi spiega il passaggio di stato dell’H2O da liquido a gassoso ed il moto convettivo delle bolle di vapore dal fondo verso la superficie e di nuovo la condensazione del vapore a contatto con il coperchio e relativo passaggio di stato da gassoso a liquido!!
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image019Le equazioni di secondo grado sono “fichissime” e la coda di una cometa è solo polvere stellare.. e quando scherzando le dico che il suo mondo è privo di poesia perché le stelle dovrebbero ispirarle altro che non il pensare ai gas ed alle reazioni nucleari che vi accadono all’interno lei mi risponde che la scienza è poesia, capire come funziona l’universo attorno a noi è poesia.
cosmo
Non potevo credere a niente di ciò che mi avevano detto, quindi cercando su internet scopro il mutismo selettivo; la ritrovo in quelle descrizioni; è stato come completare un puzzle! Ecco il perché del tirarsi indietro alle recite scolastiche all’ultimo minuto, del rivolgersi piano a me con “mamma dillo tu” se qualcuno le chiedeva il suo nome, dell’impossibilità di salutare qualcuno che non conosceva che qualche volta le ha procurato un rimprovero o una punizione…
Sensi di colpa alle stelle… se mi fossi accorta prima… se avessi saputo…
Ma è inutile farsi prendere dallo sconforto. Dopo l’autodiagnosi è arrivata la conferma ufficiale da parte di un’equipe di esperti. E adesso Chiara sta combattendo la sua guerra per sconfiggere il m.s. e io sono il suo primo ufficiale.
Quello che fai tu lo trovo encomiabile. La diffusione dell’informazione a tutti i livelli su questo disturbo è fondamentale affinché si evitino errori o inutili perdite di tempo, preziosissimo per risolvere il problema.
Ecco questa è la nostra storia, ma il finale ancora è tutto da scrivere, e sarà un lieto fine, ne sono certa.
Te la regalo e puoi farne quello che vuoi.
Spero serva, se caso mai ce ne fosse bisogno, a darti la motivazione per continuare nella tua missione.
Un abbraccio e buone vacanze. 

 

La fenêtre de l’école

La fenêtre de l’école

(Traduction de Salvatrice Sander)

 

 


Let the blue sky in

Je vis une période difficile et en même temps merveilleuse avec mon fils de 11 ans.

Comme il le dit lui-même, il est dans la « préadolescence ». Je n’angoisse pas à l’idée qu’il ne soit plus un bébé, au contraire je suis heureuse que chacun de ses pas le mène vers une plus grande autonomie, c’est seulement que ce passage est difficile, on le sait. Il veut prendre son envol mais a encore peur du vide. Les bras protecteurs de sa maman et de son papa sont trop rassurants pour qu’ils soient délaissés sans aucun traumatisme.

Il me rappelle moi à son âge.

Je n’ai aucune nostalgie de cette époque. D’un point de vue physique, j’étais, comme tout le monde, dans une période de transition. J’étais très maigre et j’arborais un véritable catalogue de complexes.

Mon leitmotiv était “la nouvelle me remplit de joie » que je répétais sans pudeur à ma mère au tempérament plutôt explosif. Imaginez que vous ayez la migraine, que vous le fassiez savoir à voix haute et que votre fille vous dise « la nouvelle me remplit de joie », sans la moindre expression comme un mantra.

Il y avait de quoi énerver même les plus calmes.

Depuis quelques temps, mon fils répète « c’est pas juste », comme une éternelle victime, quoique je lui dise (une liste de demandes d’une mère cruelle : range au moins ton bureau, ton blouson froissé, suspend-le dans l’armoire, tu pourrais chercher la deuxième chaussette ?), mais en général il fait mine de ne pas m’entendre.

Oui, il en est ainsi.

Je lui parle en me tenant tout près de lui, et lui feint d’être concentré-absorbé par d’autres activités (exemple : regarder l’écran de la télévision ou de l’ordinateur ou autre ; étudier de la musique ; apprendre le script pour son cours de théâtre).

Quand je me place ma grosse tête devant son petit visage, alors, il ouvre grand ses yeux de biche et me dit « mais oui, j’ai compris » et il sait que je ne peux lui résister.

Cependant ce ne sont que quelques moments, il y en a tant d’autres que nous passons ensemble.

Il y a quelques jours, en sortant de l’école, il m’a dit : « Maman, j’étais en classe, assis près de la fenêtre et j’ai regardé dehors ». Tu étais là, tu es arrivée avant tout le monde.

J’étais heureux de te voir là dehors à m’attendre, cela m’a fait du bien.

Je ne sais pas pourquoi. Pourtant je sais que vous êtes toujours là.

Mais aujourd’hui, c’était différent. Je me sentais en sécurité. »

Emotion à gogo.

Je me suis sentie différente, moi aussi.

J’ai pensé à lui quand il sera grand.

Comme si nous avions créé un très beau souvenir.

Moi qui ne parviens pas à débarrasser mon cœur du vague sentiment de caractère inapproprié lié à « mon ressenti de maman ». Mais cet événement m’a donné un beau choc. J’ai eu un sursaut de prétention.

Allons Adri, tu as fait de ton mieux…

Je ne sais pas pour vous, mais, pour moi, chaque jour est une conquête et une découverte.

Une chose est sûre, je me mets en colère, je crie mais quand je suis seule je cherche à me souvenir  de la petite Adriana de 11 ans, et je comprends un peu.

 

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Gentili Psicoterapeuti

GENTILI PSICOTERAPEUTI.
Oggi termina “la raccolta” per il libro francese. Sono contenta! Fruttuosa ma anche molto forte emotivamente. L’esperienza del libro-testimonianza per me si chiude con “Les paroles”. Non so se per sempre, sicuramente per molto, molto tempo.
Sono provata da uno scambio con due ragazze francesi che mi ha fatto capire che ho toccato non un punto dolente, molto peggio, una piaga aperta.
Se mi scrivono “ho preso la patente rispondendo con un sms all’istruttore che mi stava davanti”, oppure “non elimini il mio testo, ho sbagliato a pubblicarlo su fb, l’ho riscritto, la prego vorrei poter raccontare la mia esperienza, non ho altre possibilità”
Se mi dicono questo, io ci sto male.
E per questo dico STOP.
Il carico è enorme e pericoloso. Non ho mai visto tanta forza e tanta fragilità insieme.
Ora siamo “venuti a conoscenza”, e abbiamo trasmesso l’informazione agli altri, come si faceva un tempo quando la trasmissione delle informazioni era solo orale. Noi l’abbiamo scritta. Abbiamo smosso le acque e la sabbia e scoperto tante conchiglie meravigliose, ora non resta che poggiarle all’orecchio e ascoltarle. E solo voi potete farlo, solo voi avete la capacità di non rompere l’equilibrio delicato di queste conchiglie.
Qui si pubblicano solo libri, si cerca di divulgare. Io ho solo avuto un’idea senza immaginare che potesse avere tanto seguito, ma posso solo capire altro non posso fare, hanno bisogno del vostro supporto e appoggio, del vostro aiuto.
So che anche voi avete poco tempo e che i tempi sono diffiicili per tutti, ma perché non scrivete un testo divulgativo con delle indicazioni, delle piste da seguire, scritto sulla base della vostra esperienza riguardante i casi di mutismo selettivo? Un libro meno accademico-più comprensibile a noi tutti. Non vi sto lanciando una proposta, pubblicate con le grandi case editrici, con quelle universitarie, quelle specializzate non importa. Credo che sia tempo di uscire un po’ allo scoperto,So bene che esistono tanti modi diversi di considerare il disturbo, tante metodologie diverse. Voi informate, Date la possibilità di sapere che esistono delle soluzioni. L’importante è che ci sia uno scambio. Forse questo disturbo non è così come sembra chissà…
Grazie.

 

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Il senso di colpa

imagesImmagine presa dal web, grazie Cavez©
È da tempo che ci penso, un bel po’ di tempo.
Affrontare il tema del “SENSO DI COLPA” non è facilissimo.
Però questo è un luogo dove ho deciso di dar libero sfogo ai miei pensieri, e allora perché lasciare frullare le idee senza sosta?
E quindi eccomi, lancio l’argomento e attendo il vostro parere.
Il senso di colpa di cui vorrei parlare non è quello grave, dovuto a rimorsi per aver compiuto atti gravi e irreversibili. Quello lascio che siano gli specialisti a trattarlo, io mi riferisco a quello più” leggero”, quello che ci portiamo dietro come una specie di novelli Atlante, noi genitori dubbiosi.

 

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Che poi a ben pensarci esistono genitori non dubbiosi?
Non ho mai amato le caratterizzazioni di genere tipo “gli uomini sono così, le donne invece…”ma in questo caso ho la vaga sensazione che il senso-di-colpa sia un sentimento che riguardi molto di più noi donne. Ho la possibilità, grazie al mio lavoro, di entrare in contatto con molti genitori, con molte donne, di parlare, scambiare opinioni e consigli e proprio da queste conversazioni e dalla mia personale esperienza che è nata l’esigenza di parlare del senso-di-colpa .
E’ difficile scrollarsi di dosso la perenne sensazione di essere la causa di tutto ciò che capita ai nostri figli, nel bene e nel male. Alcune teorie, che forse oggi non sono più teorie ma vere e proprie scuole di pensiero, sostengono che alcuni disturbi o traumi, grandi o piccoli che siano, abbiano un’origine prenatale. E qui entriamo in un terreno minato amici miei, perché siamo noi “ragazze” che scarrozziamo i bambini nel nostro pancione, e pensare che già prima che nascano, i nostri comportamenti, le nostre azioni influiscano sull’esserino è leggermente inquietante. So perfettamente che è vero.
E poi quando crescono, non solo assorbiamo le loro difficoltà e le loro vittorie (ma piuttosto le difficoltà!!) ma ce le mettiamo sulle spalle proprio come Atlante. Tutte, da quelle più importanti, a quelle più leggere. Come fare allora?
Se hanno problemi a scuola ci sentiamo responsabili delle loro carenze.
Se soffrono di qualche disturbo o disagio psicologico, entriamo immediatamente nel tunnel del “senso di colpa” , rivoltiamo come un calzino la nostra vita , cercando di capire dove, come e quando abbiamo sbagliato. Quale azione ha scatenato quella determinata problematica? Quando è successo? Quando lo abbiamo sgridato perché eravamo esauste?
Non tralasciamo nulla, perfino la scarsa propensione del figlio per la matematica viene vista (succede a me!) come una mancanza!

Partendo dal presupposto che i figli so piezz ‘e core e che sarebbe impossibile provare un totale sentimento di distacco come affrontare ed evitare il senso di colpa?
Cercasi leggerezza!

urlsempre lo stupendo Cavez©